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Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia - Adolf Portmann - copertina
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Descrizione


Per ogni teoria dell’evoluzione, un punto imbarazzante è la varietà immensa delle forme della vita. Queste forme, ci mostra Portmann in questo libro con numerosi esempi, non possono in alcun modo essere ricondotte a ragioni di utilità, o di vantaggio selettivo. Per capirle, occorre usare altre categorie: innanzitutto quella dell’autopresentazione, che è il modo di manifestarsi delle forme alla luce e ha nella loro vita un significato avvicinabile a quello dell’espressione per gli uomini. Si tratta dunque di tornare a pensare anche in termini morfologici, quindi di recuperare il significato biologico dell’apparire, che la scienza per lunghi anni aveva accantonato. Nessun autore ci può fare da guida su questo terreno meglio di Portmann. Tutta la sua opera si è situata sullo spartiacque fra ciò che di nuovo solo oggi possiamo dire di sapere e ciò che per la prima volta oggi scopriamo di non sapere. In questo senso, Portmann è stato il più ‘goethiano’ fra i biologi moderni – e la sua opera si sta rivelando anticipatrice di un tipo di ricerca che appare finalmente essenziale nella nostra visione della natura.
Le forme viventi è apparso per la prima volta nel 1965.

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Dettagli

1989
18 settembre 1989
314 p., ill.
9788845901102

Voce della critica


recensione di Maestripieri, D., L'Indice 1990, n. 3

Passeggiando in un qualche museo di storia della scienza potrebbe capire di contemplare una stampa raffigurante una rappresentazione tolemaica dell'universo dove ogni corpo celeste è simmetricamente e perfettamente orientato attorno al nostro pianeta; si può ammirare la qualità della fattura e l'abilità di stile del suo disegnatore, senza per questo avvertire una minaccia alle proprie certezze circa la reale struttura del mondo. Se però sotto un tale quadro trovassimo una didascalia che lo presentasse come una possibile "nuova ipotesi", ci sentiremmo nel dovere tanto fastidioso quanto ineluttabile di richiamare alla mente quanto decenni di osservazioni astronomiche, di studi teorico-matematici, e finanche di fotografie di satelliti, ci hanno dimostrato. E di fastidio in fastidio finiremmo per prendercela con Tolomeo stesso e con il giorno in cui ebbe la disgraziata idea di raffigurare l'universo in quel modo.
In un simile coacervo di sentimenti conflittuali e di fastidio quasi fisico potrebbe forse ritrovarsi coinvolto il lettore della seconda edizione de "Le forme viventi" di Adolf Portmann (la prima edizione è del 1969). La didascalia di questo 'quadro' (nel nostro caso il sottotitolo) è "nuove prospettive della biologia" e a tali possibili novità fa esplicito riferimento anche la presentazione in retrocopertina, che il lettore attento o incerto nell'acquisto legge di solito avidamente allo stesso modo in cui il visitatore del museo ne leggerebbe il catalogo. Cosi a lettura del libro ultimata, si finisce per dimenticare di apprezzare le qualità stilistico-grafiche e per prendersela con autore e contenuti.
Le novità attribuite al saggio di Portmann si riferiscono ad un suo personale modo di vedere e spiegare i fenomeni biologici in generale, e in particolare l'evoluzione dell'incredibile varietà di forme viventi presenti in natura. "I fenomeni naturali sono molto spesso occasioni per immagini poetiche'' ci dice Portmann (p. 42), ed essenzialmente tali appaiono i casi che ci offre come esempio di estrema specializzazione morfologica o di complesse abilità comportamentali animali. Per merito della sua estrema sensibilità estetica anche organismi strutturalmente semplici come le meduse si vestono di forme eleganti e le loro caratteristiche biologiche acquistano elementi di fascino e di mistero.
Purtroppo le "nuove prospettive per la biologia" proposte da Portmann non si identificano con l'assunzione di un punto di vista puramente estetico nella descrizione e nel racconto della molteplicità delle forme viventi, quanto con il tentativo di fare di tale approccio uno strumento per l'analisi di tali fenomeni; in altre parole di renderlo metodo scientifico. Il fine che spinge Portmann in tale impresa avventurosa è l'affermazione di un principio degno di massima considerazione, e "ben noto al ricercatore che opera con la massima libertà ed onestà" (p. 313). Si tratta di un ammonimento a valutare adeguatamente ciò che sappiamo ma altrettanto ciò che ci è sconosciuto, e a non costruire, sulla base del pur sempre crescente numero di dati certi che la ricerca scientifica ci offre, una visione ridotta e meccanicistica del fenomeno "vita". Purtroppo ancora, su tale intento aleggia la preoccupazione-fantasma di una possibile riduzione di tutti i fenomeni biologici a "leggi chimico-fisiche", rischio nel quale Portmann crede di veder cadere molte delle tendenze scientifiche a lui contemporanee. Ne risulta quindi una posizione di aperto e generalizzato contrasto "contro tutti i tentativi di ricostruire l'organismo dai suoi elementi" (p. 40), fondata sull'idea che "l'organismo ci si offra come una realtà fenomenica unitaria e che questa sua reale presenza superi fin da principio le nostre capacità di comprensione" (p 40). Sulla base di una insofferenza per la natura stessa del corrente modo di procedere dell'analisi scientifica e - nel caso dei fenomeni biologici - del tipo di risultati e di spiegazioni che questa ci offre, Portmann incoraggia una attiva ricerca delle "leggi essenziali che presiedono alla formazione degli animali superiori" (p. 66) e propone una analisi di questi ultimi nei termini di un non meglio chiarito "plasma caratteristico", o di "rapporti tra esteriorità e interiorità", "componenti conscie ed inconscie", in una visione generale del vivente "il cui rapporto con il mondo è determinato da una misteriosa entità" (p. 73).
Affrontando il problema della diversità delle forme viventi e della loro origine Portmann assume una posizione di aperta diffidenza verso alcuni aspetti dalla teoria evoluzionistica darwiniana e soprattutto di forte dubbio sul valore euristico che tale teoria avrebbe qualora fosse applicata allo studio degli organismi viventi. Si accanisce quindi contro l'idea (in realtà, un fatto) che molte dello caratteristiche morfologiche e comportamentali degli organismi possano essere funzionali a garantirne maggiori probabilità di sopravvivenza e di riproduzione, così come contro l'idea (anche questo un fatto) che il caso possa avere un ruolo nella produzione di fenomeni biologici. Portmann combatte la sua battaglia sulla base della presentazione, o meglio della reinterpretazione in tal senso, di strutture morfologiche animali o vegetali, o di comportamenti animali, che non possiedono un particolare valore funzionale per la biologia di quegli organismi, né tantomeno sono utili per la sua "conservazione". Dal suo modo di vedere alcuni fenomeni naturali verremmo così ad imparare che il canto della cavallette è "un mezzo per esprimere la propria soddisfazione" (p. 31), quello degli uccelli "una forma di autointrattenimento" (p. 88), e tutte le forme di gioco animale "un mezzo per combattere la noia mortale che il trascorrere stesso del tempo fisico determina" (p. 92). E la natura apparirebbe un grande palcoscenico dove gli animali recitano le loro passioni e "intimità" in un afflato di grande benevolenza reciproca, tanto che anche "certe forme parassite vengono accudite dai loro ospitanti con la più grande abnegazione" (p. 128).
Naturalmente alcune sue interpretazioni dei fenomeni biologici ed evolutivi godono di attenuanti storiche e culturali. Tra queste, l'interpretazione della mutazione casuale come motore primo dell'evoluzione (eredità del pensiero "mutazionista" di inizio secolo) e una visione dei vantaggi selettivi di alcune caratteristiche organismiche "beninteso per la specie e non per gli individui, ché solo alla specie si riferisce in fin dei conti il valore di conservazione di un certo carattere" (p. 137) (di tale "selezionismo di gruppo" sono ancora pervasi gli scritti più tardi di Konrad Lorenz). D'altra parte da spiegazioni del tipo di quelle sopra citate non si può non mettere in guardia il lettore incuriosito dalle "nuove prospettive", né esimersi dall'identificarlo come l'altra faccia della medaglia di certe tendenze (etichettate poi con i termini "darwinismo da salotto" o "etologia pop") di alcuni studiosi dell'evoluzione biologica o del comportamento animale verso un'ingenua applicazione del concetto di adattamento biologico, e che offrono una visione del mondo popolato da "scimmie nude" (vedi il libro di Desmond Morris) o fenicotteri il cui colore rosa servirebbe loro a meglio mimetizzarsi nel rosso dei tramonti. Entrambi questi tipi di tendenze hanno l'effetto deleterio di far misconoscere la validità di alcune branche della biologia - quali lo studio del comportamento animale - come discipline scientifiche al pari di altre, cioè dotate di una loro metodologia rigorosa e di strumenti di analisi obbiettivi, in grado di formulare ipotesi verificabili e produrre risultati oggettivamente replicabili.
L'accanimento di Portmann contro un approccio che razionalmente cerchi di comprendere le caratteristiche degli organismi viventi in termini funzionali sembra essere motivato dalla sensazione di un impoverimento dell'immagine della natura stessa che ad esso si accompagnerebbe. In realtà la bellezza delle forme naturali è stata spesso apprezzata, anche da quegli zoologitassonomi dell'Ottocento che in essa vedevano l'opera di Dio, proprio nella perfezione degli adattamenti degli organismi al proprio ambiente fisico e agli altri organismi con cui si trovano ad interagire; altri, più moderni biologi evoluzionisti, hanno addirittura proposto di identificare nella complessità adattativa uno dei caratteri diagnostici della vita stessa. Sebbene siano moltissimi i perché che la diversità delle forme viventi e l'evoluzione biologica sono in grado di suscitare, John Maynard Smith, uno dei massimi teorici dell'evoluzione, ritiene fermamente che "il principale scopo di una teoria dell'evoluzione debba essere quello di spiegare la complessità degli adattamenti, cioè spiegare, in termini scientifici, la stessa serie di fenomeni che Paley (l'autore di una "Natural Theology" del 1828) usava per dimostrare l'esistenza del Creatore".

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