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La fine di una teoria. Il collasso del marxismo storico del Novecento
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1996
15 dicembre 2003
216 p.
9788840004099

Voce della critica


recensione di Finelli, R., L'Indice 1996, n. 9

Il tema affrontato da questi due intellettuali della sinistra non istituzionale è l'addio al sistema mitologico, quale insieme di soggetti immaginari e di grandi narrazioni, costituito per loro, negativamente, dal marxismo del Novecento. Le illusioni di questa costruzione mitologica sono state essenzialmente due: 1) la tesi che la classe operaia avrebbe potuto e dovuto costituire la classe "universale", capace di trasbordare l'umanità da un tipo di società a un'altra; 2) la tesi, a muovere da una visione prefissata e anticipata della storia, che i presupposti economico-sociali del passaggio al comunismo fossero già tutti iscritti all'interno della società capitalistica.
Della prima ipotesi si occupa maggiormente Preve, alla seconda dedica maggiore attenzione La Grassa. Comune è il convincimento che la radice di entrambe si trovi nell'originaria convinzione di Marx che sono l'organizzazione e la tecnica della stessa produzione capitalistica a generare, attraverso la socializzazione delle forze produttive, un soggetto già omogeneo e fortemente collettivizzato, quale la classe operaia, capace di aumentare sempre più, col superamento di forme d'individualità egoistica, il suo controllo comunitario e cosciente sulle modalità della produzione.
Per i nostri due autori, anziché di "socializzazione", bisogna parlare di "desocializzazione", di divisioni delle funzioni e dei ruoli lavorativi (prima fra tutte quella tra direzione ed esecuzione del lavoro), in un moltiplicarsi di differenze che mostrano quanto la scelta e l'idealizzazione che Marx ha fatto della classe operaia nascano dalla sovrapposizione di un concetto filosofico e spiritualistico di soggetto (la classe dei proletari, universale per definizione e ricca di futuro perché, priva di ogni cosa, non avrebbe nulla di particolare da difendere) sulla classe sociologica e concreta dei lavoratori salariati. Giustapposizione - per ricordare la critica di Croce a Marx - di un concetto utopico e astrattamente egualitario e solidaristico, che appartiene alla sfera del dover essere, all'ambito invece dell'essere, cioè della vita reale ed empirica, in cui si dispiega la multiforme differenza della condizione lavorativa moderna.
Nella fondazione di una pretesa soggettività collettiva, coesa e fortemente solidale, nel cuore della produzione materiale, sta dunque il "difetto" fondamentale di Marx; ripreso e assolutizzato dal marxismo novecentesco, soprattutto quello della socialdemocrazia tedesca, che nell'assunto positivistico della neutralità della scienza e delle forze produttive ha trovato l'ulteriore condizione teorica per l'assenso a una dialettica che predicava il generarsi automatico, nel cuore della modernità e della sua produzione materiale, di un soggetto tendenzialmente egemonico e totalizzante, dal piano dell'agire tecnico a quello dell'agire politico.
Tutto questo senza disconoscere che nell'opera di Marx sono presenti temi teorici, diversamente impostati e di ben altra validità scientifica, come il concetto di "modo di produzione" (principio e struttura irrecusabile da ogni storiografia moderna) e come, nota soprattutto Preve, una teoria della libertà, d'esplicita ispirazione hegeliana, secondo cui l'atto libero non è il presupposto ma il punto d'arrivo di una formazione non contraddittoria e coerente dell'individuo. Dove, dunque, rifiutando ogni visione metafisica o liberal-giusnaturalistica della libertà, Marx arriva a concepire il valore del soggetto, autonomo e responsabile, non come un presupposto (mitico e ideologico), ma come il prodotto della complessiva maturazione economica e civile di un'intera formazione sociale.
È soprattutto La Grassa, nell'analisi dedicata al fallimento del socialismo sovietico e all'attuale mondializzazione del capitalismo, che si occupa di dimostrare come l'esaurirsi storico e teorico del marxismo novecentesco concluda un ciclo di troppo facili e ingenue schematizzazioni, già operanti nell'originaria opera economica marxiana. Marx infatti si è iscritto al livello più elevato della sociologia e della scienza storica quando ha dato una definizione sistemica - e non empirica o antropomorfica - del modo di produzione moderno, concepito come plesso di relazioni giuridico-monetarie interindividuali da un lato e relazioni tecnico-strumentali tra ruoli lavorativi e ambito oggettivo della produzione dall'altro. Plesso di relazioni volto essenzialmente alla sua autoriproduzione, secondo quella che La Grassa chiama l'"invariante" della società moderna: la riproduzione immutata e costante, ragionando per grandi aggregati, delle posizioni che i membri del sistema occupano all'inizio di ogni ciclo di vita sociale. Mentre il pensiero di Marx da scientifico si è fatto ideologico quando ha voluto curvare in senso umanistico, antropomorfizzandola, questa struttura - non antropomorfica - di produzione e riproduzione di rapporti sociali e strumentali, riducendola al mito della centralità, in essa, della genesi del lavoratore collettivo: della separazione cioè tra proprietà dei mezzi di produzione e intero ambito dei lavoratori (comprese le funzioni manageriali, direttive, tecnico-organizzative).
Il marxismo del Novecento, facendo della centralità sociale e politica della classe operaia la pietra di volta di tutta la sua impostazione, ha raccolto e moltiplicato l'effetto mitico di questo assunto umanistico e comunitario, condannandosi inevitabilmente all'obsolescenza e alla catastrofe. Come del resto continuano a pensare, secondo La Grassa, tutti coloro che nell'attuale organizzazione del lavoro, a muovere dalla rivoluzione tecnologica informatica, vedono una ricomposizione delle mansioni separate nella precedente organizzazione fordista della produzione: supponendo che facilmente si possa creare, attraverso un lavoro mediato dal sapere, una scienza generale, un general intellect, alla cui formazione tutti contribuirebbero, pur se da posizioni e con competenze diverse.
Laddove la realtà parla un linguaggio diverso: quello, per gli autori, di una frammentazione del processo lavorativo, di una sua moltiplicazione in senso verticale oltre che orizzontale, della separazione tra ruoli di direzione e ruoli di esecuzione, dell'articolazione della stessa grande impresa in più unità finanziario-produttive separate, tra le quali è sempre incipiente la conflittualità.

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