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Filosofia dell'interpretazione. Antologia degli scritti
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1988
256 p.
9788870113174

Voce della critica

PAREYSON, LUIGI, Filosofia dell'interpretazione, Rosenberg & Sellier, 1988

PAREYSON, LUIGI, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, 1988

GIVONE, SERGIO, Storia dell'estetica, Laterza, 1988
recensione di Salizzoni, R., L'Indice 1989, n. 4

Nella sua storia Givone si occupa essenzialmente della moderna riflessione filosofica sull'arte, secondo una definizione di estetica che oggi è prevalente in ambito scientifico e accademico. Un'estetica intesa come disciplina che riguarda gli aspetti dell'esperienza estetici nel senso etimologico del termine, ad esempio la percezione, la sensibilità, il gusto, la bellezza, abbiano o non abbiano questi aspetti un rapporto con l'arte, non sarebbe affatto illegittima, n‚ inconsueta, ma di fatto risulta attualmente poco praticata, in Italia in particolare. La storia di questa estetica porrebbe ovviamente dei problemi molto diversi da quelli affrontati da Givone, sarebbe comunque più ampia e non potrebbe ad esempio ignorare i vari linguaggi della critica, nella misura in cui si integrano nel gusto di un'epoca.
All'interno della riflessione filosofica sull'arte Givone privilegia una linea precisa, quella che nell'arte e attraverso l'arte pensa il problema della verità. Ne derivano alcune esclusioni non così scontate, come quella di buona parte dell'empirismo inglese e dell'illuminismo francese. Non si tratta tuttavia di una scelta gratuita, ma della conseguenza della scommessa filosofica che costituisce l'anima del libro. Givone chiude la propria storia con un'ipotesi sul tramonto dell'estetica. Si tratta di un tema assai dibattuto, che ha preso il posto e ha sviluppato quello hegeliano della morte dell'arte: attraverso un "decreto sull'arte come cosa del passato" - per usare un'espressione di Maurizio Ferraris nel suo interessante contributo al volume - cioè constatando la morte dell'arte, l'estetica procrastina e amministra il proprio tramonto. Ma è precisamente qui, al suo tramonto, nel momento in cui perde la propria attualità di filosofia speciale, che l'estetica secondo Givone, può riscoprirsi autorizzata ad un ruolo attuale come filosofia generale. A decidere di questa nuova attualità è la situazione che sta maturando in quella "realtà dell'esistenza" rispetto alla quale l'estetica appare a prima vista marginale.
Il mondo contemporaneo è caratterizzato da un processo di estetizzazione della tecnica, nel quale "la tecnica... è per così dire costretta a esibire la propria natura estetica, la propria 'vocazione' ad una produttività che si potrebbe riportare senza forzature a quella 'spontanea' e 'libera' dell'arte".
Se così è la verità del mondo della tecnica è quella dell'arte: pensare la verità dell'arte nel momento in cui la si consegna al passato può voler dire pensare la verità del mondo della tecnica che si prende in consegna dal presente. Ora, è stato il pensiero ermeneutico ad esercitarsi in particolare sul problema della verità dell'arte, per questo il tramonto dell'estetica, nel momento in cui si dispone a pensare la verità dell'estetizzazione della tecnica, non può che avvenire nell'ermeneutica, per questo deve essere l'ermeneutica a dare le coordinate di una storia adeguata dell'estetica nel momento in cui ritrova "il più propriamente suo, e più radicale, problema", quello della verità dell'arte, reso cruciale dalla metamorfosi della tecnica in arte; per questo il fulcro di una tale storia non può che essere costituito dai romantici, per i quali "romantizzare" è sinonimo di "interpretare" e "implica la verità".
Givone offre una sintesi breve ed efficace del pensiero sull'arte e sul bello a partire dall'antichità, ma afferma che è solo con Kant che si ha "il vero e proprio atto di nascita dell'estetica: il formarsi di un sapere in grado di elevare la riflessione sull'arte al piano in cui l'arte fosse non semplicemente descritta nelle sue manifestazioni, bensì giustificata nelle sue condizioni trascendentali di possibilità". I romantici con la loro tipica tesi: "non c'è verità senza stile, non c'è stile senza verità", inaugurano "la parabola nella quale, in definitiva, si consuma la storia dell'estetica come noi la intendiamo". Consunzione che si realizza attraverso Nietzsche, nella cui nozione di "grande stile" risuona e prorompe il tragico, pensato come "l'essenza dell'esperienza estetica"; e definitivamente con Heidegger che ponendo l'arte come origine rovescia il problema kantiano - le condizioni ricercate per l'arte sono considerate ora come poste dall'arte stessa. "Soggiacendo all'arte" riconosciuta come origine, trasformandosi in pensiero della verità aperta e custodita dall'arte, l'estetica diventa definitivamente ermeneutica: si dispone all'interpretazione dell"'essenza dell'esperienza estetica" e non alla sua fondazione su principi di verità ulteriori. Se davvero il nostro mondo fosse quello in cui attraverso l'estetizzazione della tecnica la verità "è liberata allo stile", il tramonto dell'estetica nell'ermeneutica si rivelerebbe un vero mezzogiorno.
È tutta la filosofia moderna che nel libro viene fatta ruotare intorno alle quattro articolazioni fondamentali ricordate (Kant, i romantici, Nietzsche, Heidegger), tanto nelle sue correnti più lontane da ipotesi ermeneutiche, come quelle positivistiche, quanto nei più recenti sviluppi post-heideggeriani, come le filosofie di Gadamer e Derrida: tuttavia quella di Givone resta una storia che punta più sull'incisività della parabola che sulla moltiplicazione delle prospettive, che risulta quindi più attenta alla tempestività delle svolte che alla pluralità dei linguaggi. Il risultato è quello di una narrazione avvincente. Non si tratta di un repertorio erudito e nemmeno di "un manuale completo di storia dell'estetica che soddisfa ogni esigenza di informazione", come si afferma nella quarta di copertina. Mi pare che ad esempio Diderot, di cui nel libro non si parla mai, possa comunque rispondere a qualche non marginale informazione su quel che è estetica. Si tratta invece di una "vera" storia per il coraggio della scommessa e la tensione della scrittura.
Givone appartiene alla "scuola di Torino", e in una prossima storia il suo nome sarà sicuramente introdotto nella parentesi del relativo paragrafo: IV, 3, "Pareyson e la scuola di Torino (Eco, Vattimo)". La riflessione pareysoniana sull'arte ha la sua formulazione fondamentale "Estetica. Teoria della formatività" (Ia ed. 1954). Formatività è insieme produzione e invenzione, è quel fare che "mentre fa, inventa il modo di fare". Tutta intera l'attività umana ne è caratterizzata, ma solo l'arte ne costituisce la specificazione pura. La teoria della formatività prende corpo attraverso un'analisi ampia e sistematica dell'esperienza estetica, tanto dell'arte quanto del fare non artistico, in quel che ha di propriamente umano, di inventivo e formativo. Quello della formatività si può ben considerare un mondo in cui la verità è "liberata" alla forma e allo stile, come possibilità per l'artista e per l'uomo, solare e tuttavia tentativo, niente affatto garantita. "L'opera d'arte non dipende da nulla che le sia esterno... ha tutto ciò che deve avere, niente di più e niente di meno". Nella sua perfezione l'opera d'arte si apre all'interpretazione infinita delle letture e delle esecuzioni, proprio perché è conclusione di un processo che tenta soluzioni, che interpreta possibilità - l'artista si fa interprete della persona che lui stesso è.
Pareyson svilupperà ed evidenzierà nella sua filosofia successiva - di cui l'antologia curata da Marco Ravera rende conto con ampiezza e precisione - i caratteri di scommessa e di rischio di un tal liberarsi della persona alla verità della forma, senza mai tuttavia portare in primo piano l'ipotesi di una forma della verità, intesa come condizione di destino o di epoca: il liberarsi dalla verità della forma resta comunque precisamente un atto di libertà della persona. Un tratto caratteristico di Pareyson, che mi sembra lo differenzi anche rispetto alla sua scuola, mi pare che possa essere considerato proprio questo: il voler rimanere, tessendo il nesso arte-interpretazione e teorizzando la portata ontologica dell'arte, un pensatore della verità della forma e non un ideatore di forme della verità.
Il libro di Pareyson è un classico dell'estetica, non solo per l'importanza dell'occasione storica che crea nel momento in cui esce: il rilancio in Italia della riflessione estetica dopo Croce, ma anche per le intrinseche qualità di rigore filosofico. Riletto oggi, a più di trent'anni dalla prima edizione, mi pare che riveli in modo più marcato - com'è inevitabile - alcune affinità e parentele: particolarmente rilevanti sono quelle che lo avvicinano all'estetica di Dewey, per l'ampia e profonda interconnessione di arte e vita che le due filosofie offrono.
Il motivo per cui R. Rorty, in "La filosofia e lo specchio della natura", ha potuto recuperare Dewey alla corrente "marginale" ed ermeneutica della filosofia contemporanea è lo stesso per il quale Pareyson ha saputo collocarsi all'origine e al centro dell'ermeneutica italiana con un libro, l'"Estetica" appunto, evidentemente sistematico e concettualmente "costruttivo": la coerenza con cui entrambi hanno pensato l'esperienza dell'uomo (forma e stile nella sua condizione di successo, secondo Pareyson) come occasione e orizzonte all'interno del quale la verità può essere interpretata, e non come suo travestimento.

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