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Filippino Lippi - Patrizia Zambrano,Jonathan Katz Nelson - copertina
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Filippino Lippi - Patrizia Zambrano,Jonathan Katz Nelson - copertina

Descrizione


In occasione del cinquecentesimo anniversario della morte di Filippino Lippi viene presentata una ricca monografia sul pittore. Filippino Lippi appare come uno dei protagonisti dello scenario artistico europeo della fine del XV secolo. La qualità e la consistenza della sua opera, l'importanza delle commissioni e dei committenti, l'eminenza della collocazione delle sue opere, i contatti con gli artisti più significativi del suo tempo, la considerazione nella quale venne tenuto dai suoi contemporanei, la profonda connessione con gli sviluppi dell'arte fiorentina del suo tempo e il ruolo che la sua arte ebbe sono solo alcune delle specificità che fanno di lui uno dei 'costruttori' della Firenze del primo Rinascimento e del suo mito.
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Dettagli

1 giugno 2004
671 p., ill. , Rilegato
9788843555543

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Gabriele - Urbino
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Evidentemente il volume inaugura un nuovo corso nella serie de "i classici" di Electa, destinati a presentare l'opera completa degli artisti; il formato, infatti, è più grande e lussuoso che in precedenza, e in cofanetto. I testi di questa monografia tanto attesa ed annunciata sono ottimi; i due autori, che si sono divisi il compito - l'uno il periodo giovanile, l'altro la maturità - oltre alla disamina tecnica e stilistica delle opere - ottime le schede - hanno inserito il pittore nel contesto storico e artistico del tempo, mediante densissimi capitoli che ne ripercorrono la carriera. La collaborazione, con inusitata onestà intellettuale, non nasconde le rispettive divergenze (ad esempio sul grado di aiuto del Botticelli alla serie delle "storie di Ester", Zambrano e Nelson hanno idee diverse, se non opposte). Le immagini, ottime e molto grandi, sono tra i maggiori pregi del libro. Unici difetti: il peso, che ne rende faticoso l'uso, e una o due fotografie sfocate (vedi le "Virtù" del Christ Church di Oxford), fatto quest'ultimo deplorevole in opere di così lunga gestazione e cura. Il prezzo, naturalmente, non lo rende alla portata di tutti.

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Voce della critica

La recente mostra di Parigi e Firenze dedicata a Botticelli e Filippino Lippi recava nei manifesti il primo nome a caratteri cubitali e il secondo più in piccolo: comprensibile operazione di marketing che rispetta la differenza di fama, a livello di turisti e di amatori di medio livello, tra i due artisti. Si tratta di una sopravvivenza del culto di Botticelli che trionfò, specie in area anglosassone, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, e che molto ha pesato anche sugli studi (basta contare quante monografie siano state dedicate a Botticelli negli ultimi cento anni, e quante a Filippino). Tuttavia, visitando quella mostra (devo confessare peraltro di aver visto solo l'edizione fiorentina) si aveva la netta impressione che in quelle gerarchie apparentemente definitive ci fosse qualcosa da rivedere; e tanto più quanto opposti erano, in fondo, anche i giudizi dei contemporanei. Botticelli, a parte la trasferta romana, intrapresa insieme ad altri fiorentini e umbri, per lavorare nella Cappella Sistina verso il 1481, fu sempre e solo un pittore cittadino; Filippino invece, specie negli ultimi vent'anni della propria carriera, fu artista richiestissimo per incarichi prestigiosi anche fuori da Firenze e dalla Toscana, e fornito di rilevanti celebrazioni letterarie. Ora, per valutare l'effettiva importanza del Lippi nella storia dell'arte italiana al passaggio tra Quattrocento e Cinquecento, questa sontuosa monografia, frutto di molti anni di studi, offre uno strumento fondamentale.

I due autori si sono divisi il lavoro secondo criteri fondamentalmente cronologici: Patrizia Zambrano racconta (il verbo, si vedrà, è particolarmente appropriato) la vicenda di Filippino fino al completamento della Cappella Brancacci al Carmine di Firenze, lasciata interrotta da Masaccio e Masolino, mentre Jonathan Nelson segue il percorso dell'artista dalla seconda metà degli anni ottanta alla morte, avvenuta nel 1504. Si tratta in pratica di due diversi libri, condotti anche con metodologie diverse, e in cui qua e là emerge qualche differenza di opinione; ma il molto lavoro svolto in comune e comunque condiviso dagli autori è evidente.

Patrizia Zambiano affronta il problema della formazione di Filippino, figlio del celeberrimo pittore fra Filippo, artista legato al giro mediceo e dai contemporanei considerato una sorta di reincarnazione di Masaccio, ma in precoce contatto, se non proprio alunnato, con Botticelli. Questa fase di Filippino, tanto diversa da quella patetica e drammatica dei grandi cicli ad affresco della maturità, parve così inconciliabile con il coté "prebarocco" (allora inteso in accezione decisamente negativa) da spingere Berenson a riunire il nucleo del suo catalogo giovanile sotto il nome fittizio di "Amico di Sandro". La trattazione, specie per la prima giovinezza di Filippino (che già nel 1469, morto il padre mentre dipingeva gli affreschi del Duomo di Spoleto), procede con un ritmo straordinariamente rallentato, attento a ogni minimo dettaglio anche biografico – la data di nascita tradizionale, 1457, viene sostanzialmente accettata (pur con un margine di dubbio che essa vada leggermente anticipata), ma dopo il vaglio di un puntigliosissimo esame che ha precise ricadute filologiche –, del tutto insolito per una monografia artistica: un ritmo narrativo che talvolta, lo dico con assoluta serietà, mi ha fatto pensare al romanzo russo.

Fra le proposte più intriganti, e che saranno certo oggetto di discussione negli studi futuri, è quella di vedere l'esordio del giovanissimo Filippino in qualche dettaglio (particolarmente in una testa d'angelo musicante) dell'Incoronazione della Vergine dell'abside della Cattedrale spoletina, realizzata da fra Filippo con la collaborazione di fra Diamante, discutibile tutore del ragazzo dopo la morte del padre, e Piermatteo d'Amelia. Va da sé che l'influenza paterna rimase decisiva nell'arte di Filippino, che ne diede fin da subito un'interpretazione volta a enfatizzarne la delicatezza cromatica, la trattenuta monumentalità e il gusto parafiammingo per le preziosità ottiche e di materia pittorica (il confronto tra due opere di Filippo e Filippino raffiguranti entrambe una Pietà, rispettivamente al Poldi Pezzoli di Milano e al Museo di Cherbourg è illuminante). Sono in qualche modo i doni che Filippino porta in dote nella collaborazione con Botticelli: la linea sinuosa e idealizzata e il colore pieno e squillante di quest'ultimo, ai quali pure Filippino si adegua, vengono sempre ritradotti in termini di maggiore atmosfericità, specie nei paesaggi umidi e tersi e nei panneggi vaporosi, e nella teatralità più accentuata delle posture (fino ad apici di pateticità come la cosiddetta "Derelitta" della collezione Pallavicini di Roma, in realtà un Mardocheo davanti al palazzo reale, parte di una serie di Storie di Ester): il che indica che presto ci fu un contatto con il poco più anziano Leonardo, negli anni settanta del Quattrocento collaboratore di Andrea del Verrocchio presso la cui bottega era del resto transitato anche Botticelli.

Le svolte nella carriera di Filippino sono rappresentate dal completamento degli affreschi masacceschi al Carmine, commissione dietro la quale, come Zambrano argomenta in modo convincente, si intravede il ruolo di Lorenzo il Magnifico, al quale si deve anche la raccomandazione del pittore al cardinale Carafa per la propria cappella in Santa Maria sopra Minerva a Roma. Se negli affreschi del Carmine Filippino fa i conti con la più gloriosa tradizione cittadina (nell'esigenza stessa di uniformarsi per quanto possibile alla decorazione preesistente), maturando un linguaggio teatrale che caratterizzerà la sua successiva produzione murale, le opere contemporanee su tavola denunciano una crescita impressionante nel dominio della tavolozza e degli effetti di una luce densa e baluginante, in cui lo studio della pittura nordica si coniuga a una sorta di cameratismo artistico con il giovane Leonardo; del quale talvolta è chiamato a rimpiazzare le opere mai consegnate, come nel caso dell'Adorazione dei Magi per San Donato a Scopeto. Questo momento degli anni ottanta è puntellato di capolavori quali l'altare di Sant'Antonio in Santa Maria del Corso a Lucca, eseguito in collaborazione con lo scultore Benedetto da Maiano (oggi diviso tra il Museo di Villa Guinigi e il Norton Simon Museum di Pasadena), il tondo dell'ente Cassa di Risparmio di Firenze, la Madonna 3246 degli Uffizi, la celeberrima pala della Badia, a studiare la quale Piero di Cosimo passò sicuramente infinite ore, o la Sacra Conversazione di Londra.

A questo punto, dopo sei capitoli e un eccellente catalogo delle opere, si chiude il "libro" di Patrizia Zambrano e comincia quello di Jonathan Nelson, peraltro assai diverso nella struttura, organizzato com'è non solo in senso cronologico ma anche per capitoli dedicati a "temi" e "funzioni", secondo una metodologia critica cara agli studiosi statunitensi: a esempio sulle "formule" dei temi all'antica, o sulla posizione e sul significato dei ritratti nelle ancone, o ancora sullo "stile austero" amato dai seguaci del Savonarola, al quale Filippino sa adattarsi "a richiesta", così come sa evaderne a favore delle più spettacolari fantasmagorie all'antica (e resta, meravigliosamente ambiguo, il Cristo di Besançon, così respirante e dolcemente domestico, tale da tornare in mente, molti anni dopo, a Gaudenzio Ferrari); e soprattutto sull'esame degli elementi di stile individuati dai contemporanei dell'artista ("aria dolce", "aria virile", "ornato"), in cui l'esame è condotto in parallelo sul piano linguistico, con ampio ricorso alle fonti letterarie e documentarie, e su quello figurativo, in modo così serrato e persuasivo da lasciare il lettore addirittura ammirato.

Nel 1487 Filippino riceve l'incarico di affrescare la cappella di Filippo Strozzi (il più ricco cittadino di Firenze dopo Lorenzo de' Medici) in Santa Maria Novella, cominciando a dipingere i Profeti della volta; ma già l'anno dopo è a Roma, al servizio del cardinal Carafa, per il quale inventa la più spettacolare e impegnativa tessitura "all'antica" che si fosse vista fino allora in pittura, tale da lasciare molto indietro le compassate reinvenzioni archeologiche che negli stessi anni, e ancora in quelli a venire, portava avanti Pinturicchio. Al punto che questo ciclo non ebbe immediatamente eco a Roma: quelle decorazioni antiquarie un po' stravolte, quegli apostoli agitati, quella Madonna che irrompe drammaticamente sul proscenio scortata dalla dionisiaca danza di angeli indiavolati come in un incredibile concerto rock pieno di qualunque sfrenatezza, quella disputa teologica meno sublime e meno indolore di quella che quindici anni dopo inscenerà Raffaello, avranno però molto da dire ad altri, più giovani artisti che calcheranno l'Urbe nei primi anni del Cinquecento, da Aspertini a Sodoma.

Ancora più estremi, sul piano cromatico oltre che su quello inventivo, sono gli affreschi che completano la cappella Strozzi (conclusa definitivamente solo nel 1502), sulle cui pareti laterali si squadernano le Storie di san Filippo e di san Giovanni Evangelista. L'artista si concede ormai qualunque licenza espressiva: grottesche incrostate, elmi fantasiosi, panneggi spezzati, incercinati, svolazzanti, aste-totem, bandiere, bassorilievi e statue animate, lampade, candelabri, mostri; e accostamenti di colore arditi, azzurro/malva/verde, giallo/rosso/verde, ocra/turchese, cangiantismi continui, incarnati intaccati da una luce acida e corrosiva (come già nel San Gerolamo degli Uffizi, la cui datazione al 1494-95 circa, dopo un possibile viaggio a Milano, proposta da Nelson di contro a quella forse prevalente verso la metà degli anni ottanta mi sembra preferibile). Le "sregolatezze" di Piero di Cosimo trovano una volta di più la loro radice su questi muri, che del resto esercitarono un fascino potente anche su artisti forestieri (per continuità di frequentazione, i primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Gaudenzio e di Sodoma).

Eppure, non è la maniera moderna, anche se ne siamo sulla soglia: le intemperanze di Filippino rappresentano piuttosto l'estrema torsione, anche oltre il punto di rottura, del linguaggio quattrocentesco che, per così dire, frana su se stesso non riuscendo a trovare uno sbocco percorribile, in termini di monumentalità e nobile semplificazione, alla propria crisi espressiva (come riesce a Leonardo, che nel Cenacolo e soprattutto nella Battaglia di Anghiari inventa il Cinquecento, superando con inconcepibile slancio l'impasse che lo aveva bloccato a metà della sua Adorazione dei Magi). Filippino muore, improvvisamente, nel 1504, prima di poter vedere i cartoni delle Battaglie di Anghiari e di Cascina approntati da Leonardo e Michelangelo, che furono "la scuola del mondo" per almeno tre generazioni di artisti. Sembra un fatto simbolico: il secolo vecchio ha compiuto il massimo sforzo, ha raggiunto il colmo della tensione; ma non essendo uscito da se stesso, ne è morto.

                                                                                                          Edoardo Villata

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