Ogni luogo, a ben vedere, è anche sempre un gomitolo di tempo: nelle sue spire sono avvolte le storie di chi lo ha attraversato, abitato, plasmato. Ma in terre dal passato gonfio di sangue, "la memoria è una maledizione". È quello che sostiene Philipp Meyer in questo suo nuovo romanzo,
Il figlio (ed. orig. 2013, trad. dall'inglese di Cristiana Mennella, pp. 553, 20, Einaudi, Torino 2014), a proposito del Texas, terra di "giganti", in cui la morte è stata per secoli "compagnia abituale", e i popoli più diversi vi si sono succeduti a ondate, come "sciami di formiche che spuntano con il primo caldo e muoiono con i primi freddi". Ricostruendo una saga familiare lunga sei generazioni, dai primi coloni di inizio Ottocento agli ultimi eredi di una dinastia di petrolieri, Meyer cerca nella storia di questa regione le radici dell'identità americana e vi scopre in una cieca spirale di violenza e sopraffazione, che illude gli uomini soltanto per poterli meglio gettare in pasto a un oblio le cui "tracce spariscono appena si alza il vento". Il successo di
Ruggine americana (2009), crudo romanzo d'esordio sui costi umani della crisi economica e sui sogni traditi delle nuove generazioni, in una Pennsylvania prostrata dalle dismissioni industriali, era valso a Meyer la menzione nella prestigiosa lista, redatta dal "New Yorker", dei venti migliori scrittori "under 40" in circolazione negli Stati Uniti. Cinque anni più tardi,
Il figlio si presenta come un lavoro ancora più ambizioso, un western anomalo che esplora le ragioni storiche di quel declino e narra lo spropositato prezzo, in termini morali, pagato dalla società americana al demone della grandezza. Non a caso, come epigrafe, Meyer sceglie una citazione di Gibbon sulla caduta dell'impero: "La fortuna (
) non risparmia né l'uomo, né le sue opere orgogliose, e seppellisce imperi e città in una tomba comune". Al centro di
Il figlio c'è la storia dei McCullough, una famiglia giunta in Texas quando era ancora un desolato spazio vuoto sulle mappe, infestato dai selvaggi, ma aperto alle possibilità del sogno e della conquista. Meyer segue le vicende della famiglia, alternando le voci narranti di Eli, colonnello centenario che ha vissuto l'epopea del West, è stato rapito dai
comanche e, dopo essere tornato ai bianchi, è divenuto suo malgrado inflessibile schiavista di messicani e sterminatore di nativi; quella di Peter, suo figlio, petroliere, uomo di acuta sensibilità morale, insofferente nei confronti di ogni violenza e ingiustizia, e pertanto reputato debole; e quella di Jeanne, la pronipote del colonnello, alle prese con una eredità industriale sulla via del declino, inesorabilmente sorpassata da una modernità che ha imboccato altre strade. Questo intrecciodestini è rievocato da Meyer con una forza narrativa non comune. Non mancano scene cruente, al modo del Cormac McCarthy di
Meridiano di sangue (1996), cui il romanzo è legato da profonde affinità. Anche quella di
Il figlio è infatti un'epica negativa, tesa non a esaltare il mito della frontiera, ma a sbriciolarlo fin nelle fondamenta. Solo in apparenza solitario, il Texas di Meyer è un affollato palcoscenico di ruberie, stupri, omicidi, violenze, in cui tutto si ottiene (terre, bestiame, armi, donne) strappandolo ad altri: "non c'era niente di quello che prendevi che non appartenesse già a un altro". Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si depreda: in una natura ostile, l'istinto di sopravvivenza necessario alla difesa di sé degenera inavvertitamente in inclinazione al sopruso e alla prevaricazione: "gli americani (
) rubavano una cosa e poi pensavano che nessuno avesse il diritto di rubarla a loro. Ma in fondo era quello che pensavano tutti: se prendevi una cosa, avevi il diritto di tenerla per sempre". Senza dubbio, la parte più riuscita del libro è quella sull'educazione indiana del giovane Eli, che a tredici anni si trova a vivere nella tribù che ha sterminato la sua famiglia e lo ha rapito. A poco a poco, il ragazzo si lascia assimilare dai
comanche, fino a cacciare con loro, a innamorarsi delle loro figlie, a guidarli in battaglia, scoprendo in essi gli unici esseri umani di cui gli importi qualcosa. Il tema del bianco rapito dai nativi è un classico delle letterature americane: si pensi al magistrale racconto, nell'
Aleph di Borges, della giovane inglese rapita dagli indios e liberata dai bianchi, che decide di scappare e tornare alle pampas. Di solito, tuttavia, gli anni selvaggi sono lasciati in ombra, li si può appena immaginare. Meyer invece si sforza di raccontarli, descrivendo la vita di una tribù
comanche intorno al 1850. Può darsi che al vaglio attento di un antropologo non tutti i dettagli risultino corretti. Ma questo mondo di pura necessità, in cui ogni azione è dettata dalla lotta per sopravvivere, rammenta quanto sia folle la pretesa di eternità dell'uomo occidentale: "mai visto un bianco che non ti guarda stupito quando lo ammazzi", dice a un certo punto un
comanche, con lo sprezzo di chi sa quanto siano fragili i fili cui è legata la vita. L'esistenza dei nativi è terribilmente vicina a quella animale, ma proprio per questo anche profondamente umana: "Potevi massacrare, saccheggiare, ma finché lo facevi per persone che amavi non contava. I
comanche non avevano mai secondi fini non c'era niente di quello che facevano che non fosse per proteggere gli amici, la famiglia, la banda. Il morbo della guerra affliggeva solo l'uomo bianco, che combatteva negli eserciti, lontano da casa, per gente che non conosceva". Un personaggio come Eli, abituato dalla vita a far coincidere desiderio e azione, si trova alla fine davanti a un nemico dal quale non sa difendersi. Sulla famiglia McCullogh, infatti, gli anni si affrettano con il passo di una storia che sorpassa tutto: dopo averle combattute da entrambe le parti, il colonnello si trova a vivere in un mondo in cui le guerre indiane sono sostituite dalle lotte per il petrolio e la sua esperienza è considerata il relitto di un'epoca perduta. Allo stesso modo, qualche decennio più tardi, la sua pronipote si vedrà calata in una società ingrata, disgustata dalla rozzezza di ciò che rappresenta la sua famiglia. È questo, pare suggerire Meyer, il destino di tutto il Texas, terra reputata un tempo "un bastione di civiltà nel deserto, una fortezza contro le selvagge regioni indiane" e ora percepita come "custode di un vecchio ordine, meno civilizzato, che ostacola il progresso e tutto quel che esiste di buono sulla terra". Il romanzo di Meyer descrive un'umanità ferina, che ha costruito il proprio successo aggrappandosi alla volontà di superare ogni ostacolo. Come Peter, il figlio del colonnello, disprezzato perché poco incline all'azione, ora però si trova davanti a dubbio pericoloso: quello di chi ha cominciato a domandarsi se valga la pena di continuare a lottare. Non è un caso, del resto, se la prima parola che Eli impara in lingua
comanchee. Luigi Marfè