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Descrizione


La festa e il gioco sono bisogni insopprimibili per uomo: come la corda di un arco, l'animo umano non può restare continuamente in tensione, deve poter reintegrare le proprie facoltà in un tempo liberato dalle fatiche quotidiane che è anche tempo di espressione, riconciliazione e tessitura del legame sociale.
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Dettagli

2002
1 ottobre 2002
318 p., ill.
9788884920164

Voce della critica

Andrea Addobbati

LA FESTA E IL GIOCO NELLA TOSCANA DEL SETTECENTO

pp. 316, Ç 18,

Plus - Università di Pisa, Pisa 2002

Questo studio sulla festa e sul gioco nella Toscana del Settecento è profondamente radicato nell'ottica storiografica del cosiddetto disciplinamento sociale, la prospettiva che analizza i processi e i meccanismi di "normalizzazione" e di regolamentazione dei comportamenti degli individui e di introiezione delle regole avviati nella società europea di età moderna e che fa di tale processi l'essenza stessa della modernità. L'autore si propone di esaminare i mutamenti della percezione - istituzionale e sociale - del gioco e della festa prodottisi in Toscana tra la fine del Seicento e il secolo successivo per tentare di capire come e sulla spinta di quali motivazioni sia nata la regolamentazione moralizzatrice e disciplinante imposta dal granduca Pietro Leopoldo e culminata nelle leggi sul gioco degli anni settanta e ottanta.

Il tema è affrontato allargando di molto la visuale e i punti di approccio: ad esempio, affrontando l'annosa questione delle relazioni tra cultura "alta" e cultura "bassa" - esame in cui peraltro l'insistenza sulla cultura e sulla religiosità "popolari" concede forse un po' troppo alle tesi di Burke, inclini a un'idea di contrapposizione e di bipolarità oggi discussa - o analizzando l'articolato rapporto tra festa e gioco, in cui i due fenomeni, benché non identificabili, si legano all'interno della dimensione festiva, collettiva e pubblica, che assumeva spesso forme ludiche a carattere rituale in cui si mescolavano sacro e profano. La festa è infatti anche tempo di gioco, anch'esso pubblico e collettivo. La moralizzazione e il controllo governativo delle feste civiche, già avviato in epoca medicea, si accentua e muta di carattere con i provvedimenti leopoldini della seconda metà del XVIII secolo, dettati da preoccupazioni essenzialmente etico-religiose oltre che politiche e di ordine pubblico.

L'analisi dello statuto e del ruolo della festa in antico regime, ma anche delle trasformazioni dei suoi significati nel tempo, conferma la correttezza dell'approccio non funzionalista e statico, bensì attento ai contesti e alla loro forza dinamica, con cui sarebbe auspicabile affrontare il campo di studi oggi molto frequentato dagli storici relativo a rituali e cerimoniali. È quanto anche dimostra, in questo libro, l'esame di un gioco-rituale in particolare - il gioco del Ponte, a Pisa -, destinato a mutarsi in festa e stravolgere nel tempo i propri caratteri originari. Attraverso l'uso corretto di categorie antropologiche, l'autore chiarisce tappe e significati della riforma di questo gioco imposta dal potere centrale, il cui controllo finì per stravolgerne la fisionomia aristocratica in senso più "borghese" e popolare e soprattutto per svuotarlo degli elementi di identità civica e di violenza "bellicosa", trasformando la partecipazione attiva in spettacolo passivo e con ciò decretandone la fine. La tradizione civica, stravolta e "riformata" secondo le esigenze del potere centrale, cessa di esistere perché oramai ha perso di senso.

Il fenomeno del gioco vero e proprio, inteso nella sua dimensione non rituale e festiva, ma individuale e privata (in particolare quanto ai giochi di carte e di azzardo) costituisce l'oggetto della seconda, e forse più nuova, parte del volume. Anche in questo campo le istituzioni puntano a una politica del rigore e a un disciplinamento attardato, che però si scontra spesso con gli aspetti economici e fiscali del gioco e dunque con la necessità di tollerarlo pur vigilando. La legge leopoldina del 1773 segnò "un punto di svolta nella disciplina del gioco", istituendo l'interessante distinzione tra luoghi pubblici e privati quale criterio per stabilire la liceità del gioco: così, la legge, mentre riservava allo stato il controllo della moralità pubblica, delegava invece al capofamiglia quello della sfera domestica, attraverso la responsabilità della tutela del buon nome della casa. Una distinzione, quella fondata sui luoghi e non sull'estrazione sociale dei giocatori, che se da un lato sembrava tesa a scardinare la società basata sugli ordini, in conformità con il ridimensionamento dell'aristocrazia previsto dal riformismo granducale, in realtà finiva per confermare l'antico privilegio aristocratico del gioco, esercitato nei palazzi privati o nei "casini", vale a dire nei luoghi di ritrovo ricreativo riservati ai nobili e alla loro sociabilità: luoghi esclusivi in cui l'ideologia nobiliare si esplicava in pratiche sociali concrete, identificative di un ceto e delle sue tecniche di distinzione.

Resta da spiegare la motivazione dell'ostilità governativa nei confronti del gioco. Certamente, spinte moralizzatrici e concezione religiosa della sovranità e della sua missione educatrice nei confronti dei sudditi, ai quali lo stesso sovrano doveva offrire modelli esemplari di comportamento, ispiravano l'azione di Pietro Leopoldo. Ma interveniva anche la necessità di controllare e disciplinare la sfera complessa della socialità e della stessa identità aristocratiche, di cui il gioco - specialmente quello d'azzardo - era parte integrante, sia sul piano simbolico, in quanto il gioco era il banco di prova dell'autodominio aristocratico e dell'atteggiamento di disprezzo del denaro, sia sul piano materiale, poiché esso rientrava nei consumi di lusso finalizzati all'esibizione e all'accrescimento di prestigio.

Ma, a ben guardare, la vicenda toscana così nettamente declinata e delineata in termini di morale e di disciplina pubblica dei costumi, appare in una luce molto particolare quando venga proiettata sul piano della comparazione e messa in rapporto con il dibattito coevo sul gioco. La condanna e la svalutazione che circondano il gioco nella cultura del secondo Settecento - opportunamente ricostruite nell'ultimo capitolo - rispondono assai meno a motivazioni religiose e morali che a un'idea laica e secolarizzata di felicità terrena e di progresso dell'umanità. Il gioco non era più visto come vizio morale, bensì come insidia alla felicità individuale e collettiva. E, pur nell'analogia del giudizio negativo, non si tratta tuttavia di una differenza da poco. Solo in questo senso, allora, e tenendo presente tale differenza, si può sostenere che le scelte operate in Toscana nel Settecento risentivano ancora dell'"onda lunga della Controriforma", mentre in Europa avanzava una nuova visione del mondo e dell'etica.

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Conosci l'autore

Andrea Addobbati

svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Pisa. E’ autore di saggi di storia economica e sociale. Tra le sue ultime pubblicazioni: La festa e il gioco nella Toscana del Settecento, Pisa, 2004.

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