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I fenomeni e le parole. La verità finita dell'ermeneutica
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1991
1 gennaio 1992
250 p.
9788821186752

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La prospettiva ermeneutica qui proposta va da Heidegger oltre Heidegger: la tesi di Ruggenini tratta di una finitezza non irrelata, ma costituivamente rapportata ad altri e altro. Altro è forse Dio? Il rapporto con l'alterità che ci inabita va pensato nella sua indicibilità: altro è l'enigma dell'Esserci (Dasein). Il mondo - scrive Heidegger - da Parmenide in poi non è stato più pensato adeguatamente: esso non può essere ridotto a una "cosa" (un grande contenitore: il suolo che calpestiamo, la terra, gli atomi, etc.), ma pensato come sistema di relazioni. L'uomo, zoon logon echon, è il vivente che ha da parlare, ma prima di tutto, da ascoltare: logon didonai è l'invito a dare la parola. Non siamo protoparlanti, siamo infatti "gettati" in un mondo già parlato, che ci sollecita a rispondere ad un appello che talvolta ci porta a delle situazioni-limite (per dirla con un termine di Jaspers): il pensiero non ci porta sempre dove vogliamo. L'ermeneutica filosofica è stata spesso accusata di ricadere in un "misticismo dell'ineffabile"; si tratta invece di una filosofia dell'implicito, dove il detto porta la traccia del non-detto; essa tende a configurarsi come quella che potremmo chiamare una "teoria della Differenza inesauribile", ovvero come un'ontologia ermeneutica che scorge, nell'essere, un Altro mai totalmente esplicitabile e fagocitabile.

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Voce della critica

RUGGENINI, MARIO, I fenomeni e le parole. La verità finita dell'ermeneutica, Marietti, 1992
OLIVETTI, MARCO MARIA, Analogia del soggetto, Laterza, 1992
recensione di Perone, U., L'Indice 1992, n. 8

In molta produzione recente sembra essere restituito alla filosofia un tema che e antico, ma pareva essere andato smarrito: la questione della finitezza. Concentrata sulla propria crisi, la filosofia era parsa incapace di superare un orizzonte puramente autoriflessivo, se non attraverso l'uscita di sicurezza di un'estrema specializzazione disciplinare o il ricorso ad un sapere di basso profilo, come quello della saggezza (pratica). Gli autori di questi studi, invece, osano un passo avanti (che potrebbe anche essere, nel senso alto del termine, uno 'Schritt zurück'). Anziché filosofare su come si debba far filosofia, essi muovono nella direzione di far filosofia direttamente, senza perciò rifugiarsi nello specialismo dei problemi settoriali. E qui incontrano il tema del finito e il problema del soggetto, come il luogo - minimo, ma non eludibile - su cui si misura la pregnanza della proposta filosofica. Rovesciando un presupposto scontato, questo tema diviene il problema più difficile e complesso, poiché, come dice Ruggenini, il finito, e non l'assoluto, è l'autentica sfida del pensiero o, come osserva Olivetti, il soggetto, lungi dall'essere il solido punto fermo del cogito cartesiano, si produce esso stesso nello scambio della comunicazione; parla perché lo si appella e parla per essere riconosciuto. Le affinità tra i due scritti sono, da questo punto di vista, consistenti e attestano felicemente di una filosofia che si assume concretamente il compito di dire qualcosa (anche una "piccola" cosa). Le affinità, però, non comportano una comunanza di prospettive, ché anzi i due libri mi paiono singolarmente alternativi.
Che il mondo sia pieno di dèi è antica sapienza greca e il detto, per non citato mai, sembra risuonare ad ogni pagina del libro di Mario Ruggenini. Naturalmente, il mondo non è più quello greco - non è infatti anzitutto natura - ma è però parola (e il logos che la abita), e gli dèi che lo popolano sono l'esperienza del mistero di fronte a cui un'interrogazione radicale ci conduce: l'esperienza di una differenza enigmatica che occorre dispiegare, e non colmare o cancellare. Il sacro - questa soglia, che congiunge, senza mescolanza, gli uomini e gli dèi - è il terreno più proprio della filosofia. Che si fa così divina, ma proprio restando entro la radicale finitezza dell'uomo. Le parole degli uomini, rincorrendosi, danno luogo a un indeterminato, che non è mai presente e non è mai assente; dischiudono quello spazio divino in cui le cose si manifestano (i fenomeni) non perché fissate in una vista atemporale ma perché dette in parole, in quell'alternarsi di comprensione e incomprensione che intesse la finitezza dell'uomo e smaschera ogni pretesa di un sapere immediato e definitivo. Solo l'interpretazione è allora propriamente l'accesso al dire la verità, perché l'impensato è ciò che deve essere detto, anche se non per questo riesce ad essere compreso. L'impensato o il mistero è lo spazio che rende possibili le fuggevoli comprensioni di questo mondo, che restano soggette all'obbligo di rendere ragione (razionale) del loro dire (donde la legittimità, per quanto non ultima e suprema, del principio di non contraddizione) e alla destinazione dell'ascolto e del colloquio (donde il processo del dia ogo, in cui la condizione della comprensione è quella medesima che impedisce la piena trasparente comprensibilità, ossia è una differenza, l'alterità, che non si lascia mai riassorbire).Quest'ermeneutica è finita nel senso che essa non proietta verso una trascendenza esterna al mondo, verso l'alterità dell'assoluto (che annullerebbe infine ogni differenza) ma verso le alterità finite degli uomini e delle cose. Essa restituisce così l'interprete stesso alla propria finita mortalità, alla fatica di quell'intesa, sempre precaria, che, nella parola, strappa al silenzio inesorabile della morte, che tutto mette a tacere, il segreto della nostra finita alterità. Questo segreto non si lascia mai dire propriamente, ma si può però custodire, dispiegando quello spazio sacro della vita (finita, ma piena di dèi), cui la filosofia ha da volgersi, rinnovando nel moderno (e dunque sotto il segno della morte) l'antico stupore di cui i greci parlarono.
Il libro di Ruggenini coniuga arditamente e produttivamente due direzioni filosofiche non prive di tensione tra loro: il neoparmenidismo (Severino) e l'ermeneutica. La prima consente il guadagno di concepire il pensiero come pensiero della necessità, ossia, nella prospettiva di Ruggenini, l'ineludibilità del pensare, e di pensare ciò che è; la seconda radicalizza la prima, poiché mostra che non v'è opposizione assoluta, come il neoparmenidismo vuole, fra l'essere e il nulla, in quanto l'essere che si dischiude nel linguaggio è la presenza di un'assenza, ossia non è n‚ semplice presenza, n‚ semplice assenza, ma differenza. Reciprocamente, però, il neoparmenidismo può radicalizzare l'ermeneutica poiché la sottrae alla possibile deriva di una differenza puramente casuale, soggettiva, debole. Al contrario, la differenza è la vera necessità, il destino che ci costituisce. Essa, come l'essere, suscita stupore e restituisce sorprendentemente un oggetto - il finito - che grazie a questo incrocio di prospettive non appare più qualcosa di provvisorio e minacciato dall'assoluto, n‚ come un'irrilevante apparenza, e neppure quella banale e levigata fattualità che le ideologie neoilluministiche presuppongono: il finito ritorna problema, ambiguo punto di incrocio definito dall'alterità di altri finiti.
La contaminazione che Ruggenini suggerisce è proseguita anche ad altri livelli, facendo interagire il tema fenomenologico con quello ermeneutico (il primato fenomenologico della vista con quello ermeneutico dell'ascolto) e rovesciando la fenomenologia in ermeneutica; forzando Aristotele oltre se stesso; restando con Heidegger, ma contro e oltre Heidegger, perché in lui manca l'esperienza dell'alterità; riattraversando criticamente il decostruzionismo di Derrida.
Resta una irrisolta - forse volutamente - tensione di fondo, quella che nasce dal far interagire due prospettive radicalmente alternative: il neoparmenidismo non è infatti solo riproposizione della necessità, ma anche negazione della modernità e in particolare dell'evento che più l'ha segnata, del problema filosofico di una trascendenza come origine e senso del mondo. L'ermeneutica, al contrario, è pensiero della modernità, che nasce a partire dall'esperienza anzitutto cristiana, di una distanza incommensurabile che deve essere detta. La proposta di Ruggenini rivendica alla filosofia il proprio immanente senso religioso (il mistero della finitezza, il mondo pieno di dèi) e respinge la teologia cristiana come riflesso di quell'epocale profanazione del mondo che l'ha spossessato della propria sacralità rendendolo deserto del divino.
E tuttavia, anche se così stessero le cose, la cesura inferta nella nostra cultura dal cristianesimo è precisamente la condizione che rende possibile la scoperta di un finito che non è immediata appartenenza a sé, ma appunto, differenza a confronto con l'altro. Insomma, il finito diviene quel problema che è, proprio dopo il cristianesimo (e infatti grazie all'ermeneutica possiamo pensarlo con radicalità). Ma, allora, la partita non è chiusa: restituire la filosofia al finito implica anche porsi il tema dell'immane tensione tra finito e infinito. Negata questa tensione, la morte può certo apparire come lo scrigno muto che racchiude i tesori della nostra parola, sigillo e garanzia di un'ermeneutica finita, come accade in Ruggenini. Così però è messo in ombra ciò che ne fa un inciampo assolutamente refrattario a ogni utilizzazione e che incrina la sacralità del mondo.
Non una terra piena di dèi, ma un paesaggio aspro e desolato è quello che ci presenta Marco Maria Olivetti in "Analogia del soggetto". Tutto lo svolgimento è infatti sotto il segno del tema dell'assenza. L'assenza di Dio, anzitutto, del cui nome, nel tempo della secolarizzazione, "non ha più luogo la pronuncia pubblica" (p. 5), sicché decade ogni possibilità di dare un fondamento sacro alla vita associata e financo di nominar Dio, se non attraverso l'annuncio della sua morte. L'assenza della società, poi, poiché la società non fornisce che l'orizzonte all'interno del quale appare un complesso di rapporti comunicativi. E l'assenza del soggetto, infine, poiché, anch'esso, come la società, non è un fenomeno, n‚ un'oggettività, ma solo un punto di vista, qualcosa che strutturalmente si sottrae ad ogni presenzialità.
Questa triplice assenza spiega la radicale crisi di fondamenti entro cui si trova la filosofia. All'assenza di fondamenti corrisponde il tramonto del primato delle oggettivazioni, ossia di un ordine della realtà posto e rilevabile oggettivamente. L'analogia del soggetto è la proposta di un ordine dell'analogazione assunto come più originale di ogni altro. Ciò significa che l'analogia non è da intendersi come l'espressione di un ordine ontologico dato, ma come l'atto che produce, immaginativamente, quella dimensione comune di appartenenza che si suole chiamare essere: "La tesi di questo libro è che non esiste un'essenza dell'essere umano. Tale essenza è 'immaginata', e senza siffatta immaginazione l'essere e l'umano non si coapparterrebbero" (p. 1). In pagine ricche di osservazioni fenomenologiche, Olivetti descrive questo atto di analogazione originaria, in cui l'infante diviene soggetto attraverso il paradosso di un adulto che costituisce il neonato nuda sua capacità di essere soggetto, analogandolo a se in un processo di autoinclusione.
L'atto di analogazione è equivoco, ossia al tempo stesso soggettivo ed oggettivo. In quanto è il soggetto che produce l'analogia, ma è altresì un soggetto che viene prodotto attraverso l'analogia. Ma, per Olivetti, "il genitivo equivoco è il genitivo in senso proprio, il genitivo che genera" (p. 56). Si scorge di qui la stretta e paradossale relazione che Olivetti istituisce tra analogia e equivocità. L'analogia, si potrebbe forse dire, è ciò che rende presente un'assenza o, meglio, ciò che costituisce un'assenza come presenza, ma, in tal modo, il soggetto assente, che si fa presente, è presente equivocamente: non come una presenza, ma come traccia.
Emergono così le fortissime influenze levinasiane che il libro fa risuonare e che conducono nella direzione di un pensiero oltre l'ontologia e situato nell'anteriorità dell'etica: un'etica che non ha fondamenti perché è l'anteriorità pura, lo spazio di differenza e di continuità tra gli uomini; la dissimmetria più originaria di ogni simmetria a partire da cui, per analogia, i punti di vista, che tendono all'omologazione e all'inclusione degli altri, producono invero quello spazio "immaginato", che dischiude un'inattesa cosppartenenza tra il sé del soggetto e il sé di altri soggetti Tutto ciò avviene nel linguaggio, o più precisamente nell'interlocuzione. Alla parola si viene per un bisogno fondamentale, che è quello del riconoscimento. Di qui la fondamentalità della struttura vocativa del linguaggio. Ma il bisogno del riconoscimento, che è il più fondamentale, è esso stesso suscitato attraverso quell'analogazione per cui si è riconosciuti. Ben si comprende, in quest'orizzonte, come Olivetti sostituisca al cogito cartesiano il loquor deponente, "soggetto non di una attività costituente, ma di una deponenza in cui ogni attività locutiva ed ogni costituzione cogitativa è preceduta dall'essere costituito del soggetto mediante l'allocuzione dell'altro soggetto" (p. 1 46).
In questa terra deserta di fondamenti resta la parola nella sua originaria significazione etica, perché appello e interlocuzione. Siamo consci attraverso la morte. Anzi "la parola è la morte di Dio" (p. 189), perché è ciò che resta e sta dopo che Dio è morto. Ma la parola che cancella e si sostituisce si vuole anche come rimando e segno. E per esserlo deve a sua volta cancellarsi. Equivocamente, il segno e la cancellazione sono la stessa cosa. La parola che uccide ed è - morte, e anche la vita che resta, anzi ciò che, nel senso del detto Holderliniano, '_berahaupt' resta.
Olivetti coniuga Lévinas con i temi, cristiani per eccellenza, della morte di Dio al fine di dispiegare sulla scena della filosofia contemporanea un'altra origine del soggetto, della relazione interpersonale e della società. Lévinas si lascia con difficoltà piegare in questa direzione, poiché l'intimo ebraismo del suo pensiero resisterebbe, credo, a questi svolgimenti. il suo Dio assente si è ritratto, ma non è morto; qui, invece, l'assenza e piuttosto morte e cancellazione. Ne viene che ciò che è pensato come un radicamento nella concretezza e corporeità dell'esistenza sia segnato disperatamente fin dall'inizio dalla morte. E il soggetto che scaturisce da questa carnale analogazione appare, non diversamente dalla parola, come una traccia della morte di Dio. Anzi ciò che uccide Dio, ma al tempo stesso mediante Cui Dio vive: il che fa comprendere, in un universo che non e se non traccia che non rinvia, il primato assoluto dell'etica (ma di un'etica senza compensi, ne felicità). L'esito mi pare quello di una meditazione difficile e alta, ma disperata, dove solo ali equivoco, nel senso lato e pieno del termine, è affidata la possibilità di dire qualcosa: anche qui, un passo oltre il dire e disdire lévinasiano, ma un passo anche verso una filosofia spossessata da ogni controllo sulla. parola che pur dice.

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