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Federico Barbarossa - Ferdinando Opll - copertina
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Federico Barbarossa
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Dettagli

1994
408 p.
9788875455897

Voce della critica


recensione di Sergi, G., L'Indice 1994, n. 9

Il cronista medievale Ottone di Frisinga dice del padre del Barbarossa che "portava sempre con sé un castello, appeso alla coda del suo cavallo". Una bella immagine che prepara a un carattere dominante di Federico, il "suo caratteristico modo di governare viaggiando da palazzo a palazzo, da castello a castello, da città a città". Delle due parti ("La vita e l'opera" e "Connessioni strutturali") che costituiscono il libro di Opll, la prima si può leggere come un racconto appassionante non solo perché lo storico viennese è bravo a usare gli stilemi della biografia classica, ma anche perché le vicende narrate ci conducono in ogni parte d'Europa e implicano continui mutamenti di scena. Le fortune della famiglia di Federico seguirono le scansioni normali della politica successiva al Mille: prima signori nel comitato teutonico di Ries, poi conti palatini in Svevia, seguaci del re Enrico II, avevano una posizione di rilievo già a metà del secolo XI. E normali risultano anche gli ingredienti della loro potenza: ampie basi patrimoniali (in due regioni lontane fra loro, la Svevia e l'Alsazia), ancoraggio a un principale castello di famiglia. in piena proprietà e al sicuro da confische (il 'castrum' di Staufen), fondazione e protezione di un ente religioso che attirasse il consenso sociale sul gruppo parentale (il monastero di Lorch). Tutte queste precondizioni si trovano già due generazioni prima di Federico; il padre si avvicin• poi ulteriormente al centro del potere e, dopo il 1125, quando la dinastia imperiale "salica" si era estinta, gli Staufen erano ormai nel novero dei candidati alla successione. Un biografo di grande cultura, Wibaldo di Stavelot, attribuisce a Federico virtù di maniera (la generosità con i giusti e la durezza con i malvagi) ma insiste in particolare sul connubio fra doti marziali e lo "spiccato talento retorico nella lingua madre" (a questo proposito a p. 358 un errore di stampa ci fa leggere "fecondo" invece del corretto "facondo"): insomma, vincere e convincere erano le due attività in cui riusciva meglio quell'imponente personaggio, rosso di incarnato e di pelo, il cui soprannome "Barbarossa" nacque fra gli italiani e fu poi adottato anche dai tedeschi. Ma non sarebbe stato altrettanto vincente e convincente senza una grande fortuna (messa in rilievo da vari biografi e in particolare da Acerbo Morena), innestata su una solida rete di relazioni che gli derivavano, oltreché dalla trama già intessuta dai predecessori, dallo sfruttamento della parentela (da parte di madre) con la potente famiglia dei Welfen (i guelfi). I buoni rapporti con questa famiglia e con Enrico il Leone gli garantirono l'obbedienza di due regioni importanti, la Sassonia e la Baviera, che solo nel 1180, grazie alla forza ormai accumulata, sottrasse all'ex alleato Enrico per disporne direttamente.
Le pagine di Opll sono bilanciate fra le vicende politico-militari a nord delle Alpi e l''Italienpolitik'. Il regno teutonico non è quel luogo nebuloso in cui il Barbarossa si perdeva, secondo le storie tradizionali di impostazione "italiana", alla fine di ogni sua impresa nella penisola. È il teatro di un potenziamento regio realizzato con mezzi collaudati (il consenso dei principi, le isolate prove di forza, la politica di equilibrio) e poi arricchito con una nuova "idea imperiale": ne fu teorico Goffredo da Viterbo, ascoltato consigliere, secondo cui la volontà divina non si manifestava tanto con il percorso elettivo verso la corona quanto, invece, con l'ereditarietà di sangue e la predestinazione dell'imperatore. In tutto il medioevo il titolo imperiale spettava a chi era re d'Italia: e gli episodi più noti della storia di Federico sono collegati alla sua volontà di esser appieno "re d'Italia", non dipendono da un astratto disegno imperiale o dalla logica di conquista da parte di un tedesco oppressore contrario a inesistenti istanze nazionali italiane. Opll valorizza, sì, il confronto fra la politica italiana e quella tedesca del Barbarossa, ma ci mostra l'imperatore in movimento su tutto lo scacchiere europeo, quindi anche nei rapporti con la Borgogna, con la Polonia, con la Danimarca. Ma è poi fuori dell'Europa che si conclude la vita di Federico: nel 1190, sul fronte crociato, a Seleucia, dopo il bagno in gelide acque. Secondo un'usanza funebre, per noi fastidiosa ma allora riservata ai sovrani, la sua salma fu fatta bollire e le carni separate dalle ossa: le carni furono inumate ad Antiochia, le ossa furono trasportate a Tiro e da quel momento se ne persero le tracce.
Nella seconda parte, quella costruita per problemi, il lettore incontra pagine più vicine a quelle a cui la storiografia degli ultimi anni l'ha abituato. Il giudizio di fondo di Opll è che ci troviamo di fronte a "un grande talento politico" che costruì la sua potenza "unendo metodi tradizionali, arricchiti di nuovi contenuti e di nuovo dinamismo, a strumenti politici creati ex novo.
È giustamente attribuito a Federico un "consapevole impiego di tutte le potenzialità del feudalesimo". Siamo in quel secolo XII che tradizionalmente è ritenuto meno feudale rispetto alle età precedenti, sia perché in alcune regioni si realizzò lo sviluppo comunale, sia perché si ebbe una ripresa di poteri di principi e re con tendenza alla ricomposizione territoriale. Ma quelli erano giudizi superficiali, nati da un'errata equazione feudalesimo = signoria = frazionamento, un'equazione tanto estranea a Opll da non attrarre neppure sue esplicite contestazioni. Per lo storico viennese il feudalesimo è un sistema di raccordi personali, di natura militare, utilissimo proprio nelle fasi di costruzione. Si tratta di meccanismi ben radicati nella tradizione germanica che per lo più erano usati spontaneamente nel contesto sociale che negli anni di Federico, anziché lasciare il passo ad altri strumenti più "pubblici", si diffusero in modo sistematico e si coniugarono senza traumi con le concezioni statuali suggerite dalla riscoperta del diritto romano Certo, talora Federico appare "in una condizione di vera dipendenza dai principi e dal loro aiuto armato", ma è interessante rilevare che anche nel regno teutonico non fu affatto un 'primus inter pares': il principio di regalità era accettato da tutti i potenti, anche se "i vincoli feudali plasmavano in profondità l'intera compagine dell'impero". I feudi si prestavano a essere premio, così come la loro sottrazione si prestava a essere punizione: la feudalizzazione aveva raggiunto una diffusione e una politicità impensabili negli anni carolingi e ottoniani, quando era molto raro che una concessione feudale avesse contenuti giurisdizionali e trasmettesse potere al vassallo.
In momenti famosi della storia del secolo XII (la dieta di Roncaglia, la pace dl Costanza) lo strumento feudale si rivelò idoneo anche per regolare i rapporti fra due istituzioni distanti come il regno e i comuni. I comuni italiani poterono continuare a riscuotere le regal¡e (gli introiti fiscali pubblici da tempo in mano alle forze signorili locali, ma ufficialmente di competenza regia) perché si riconobbero vassalli - vassalli collettivi - del re d'Italia Federico Barbarossa: quelle riscossioni corrispondevano al beneficio (feudum) che il re concedeva in cambio della fedeltà. È una soluzione che può stupire solo chi sia ancora legato a un'immagine tutta "borghese" dei comuni cittadini italiani. Certo una componente mercantile era presente in molti comuni, alcuni ne erano caratterizzati (se pur non nelle proporzioni che Pirenne aveva riscontrato nelle città delle Fiandre o Dollinger in quelle anseatiche del Nord Europa), ma le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in luce una "partecipazione sostanziale e caratteristica" delle grandi aristocrazie al primo governo dei comuni italiani. Alcuni di quegli aristocratici erano i grandi vassalli dei vescovi ('capitanei', più corretto del "capitani" qui usato nella traduzione), e non ci si può dunque stupire se, attraverso di loro, la mentalità vassallatico-feudale filtrava in tutto il mondo comunale, risultava familiare ai vertici dei comuni e si prestava a essere terreno d'incontro fra i contendenti.
Il comune stesso aveva spesso fatto ricorso a legami vassallatico-beneficiari per assoggettare signori del contado, e non lontani dal modello feudale etano anche i patti di 'habitaculum', con i quali il comune costringeva le famiglie signorili ad avere casa in città, a risiedervi (almeno formalmente) per parte dell'anno, e ad accettare dunque il controllo politico e fiscale della dirigenza del comune. Questi chiarimenti sulle strutture, fornitici dall'autore, escludono dunque che Federico potesse essere il campione di una riscossa della "feudalità" rispetto alla novità rivoluzionaria costituita dal comune. In Germania aveva, di tanto in tanto, conflitti con principi territoriali ambiziosi. In Italia i principi territoriali erano, in fondo, i comuni: e il Barbarossa, nella sua qualità di re d'Italia, fece di tutto per ridurli all'obbedienza o - nei momenti di debolezza del regno - per trovare con essi un modus vivendi.
Non a caso in Borgogna (dove, anche, era titolare in prima persona della corona regia) Opll constata che Federico non era affatto pregiudizialmente ostile alle autonomie comunali. Non a caso in Germania si trovano tracce di una politica regia di favore verso le comunità urbane, e le "città imperiali" diventarono perni sia dell'organizzazione del consenso, sia dell'assetto territoriale. I vescovi non costituivano, negli anni di Federico, una categoria analizzabile in modo compatto. In Italia stavano vivendo una fase di transizione: alcuni rinsaldavano i buoni rapporti con i comuni (che potevano essere della Lega lombarda o filoimperiali), altri si schieravano in ogni caso dalla parte dell'imperatore. In Borgogna in particolare Federico fece uso sistematico dei vescovi amici, utilizzando spesso il loro tramite per le sue aperture verso le comunità cittadine.
Opll ci offre i riusciti ritratti di alcuni veri grandi amici dell'imperatore. Come il fedelissimo conte Rodolfo di Pfullendorf, confidente prezioso che non fece più ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta nel 1180. O come il marchese Guglielmo di Monferrato, a cui addirittura lasciò in custodia il figlio di pochi mesi. Ma nelle ambizioni di Federico c'era anche quella di affiancare, alla rete di consensi acquisita con mezzi vassallatici, una rete di ufficiali di sua nomina, in grado con la loro stessa esistenza di attestare il peso e la capacità d'intervento del regno. Ecco perché nel secolo XIII incontriamo conti nuovi, nominati dal Barbarossa senza troppo tener conto delle tradizioni dinastiche. Talora (come nel caso di Guglielmo di Aquisgrana nominato conte di Siena) l'area di reclutamento era quella dei 'ministeriales', funzionari minori di origine spesso semiservile, che secondo Opll "trassero dagli incarichi e dai compiti loro conferiti un tale tesoro di esperienze da apparire spesso come gli interpreti ideali della politica staufica".
Opll apre il libro dicendo di voler sfuggire alle contrapposizioni che, nella storiografia passata, avevano fatto di Federico un simbolo della grandezza dei tedeschi o, al contrario, della loro aggressività; e, ovviamente, di volersi sottrarre anche all'immagine risorgimentale dei comuni italiani come "gruppo compatto e monolitico" contrapposto allo straniero. E lo chiude senza alcuna simpatia (qui va controcorrente rispetto a tendenze attuali) nei confronti delle leggende successive alla morte del Barbarossa, perché le leggende "coprono e addirittura impediscono la chiara visione dei fatti susseguitisi in un'epoca fondamentale per la storia medioevale europea". Si possono condividere i giudizi di Opll che - a differenza di noi che siamo più lontani e avvertiamo un certo fascino - è freddo rispetto al mito di un Federico non davvero morto, ma nascosto sul monte di Kyffhäuser (sopra Tilleda), o in anfratti presso Salisburgo o presso Kaiserslautern, pronto a tornare un giorno fra gli uomini per "restaurare nell'impero l'ordine e il diritto". Noi, di questi tempi, non ne possiamo più della reinvenzione del carroccio; un austriaco intelligente non ne può più della strumentalizzazione di un grande re.

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