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Favola di Polifemo e Galatea - Luís de Góngora - copertina
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Favola di Polifemo e Galatea - Luís de Góngora - copertina

Descrizione


Scritta nei primi anni del ‘600, la Favola di Polifemo e Galatea è uno dei testi più significativi della poesia barocca spagnola. Gongora riprende il mito di Polifemo dalla versione delle “Metamorfosi di Ovidio” in cui il gigante, innamorato della ninfa Galatea e geloso di Aci, uccide il rivale che viene poi tramutato in torrente per intervento divino. Il tema del contrasto tra la mostruosità e la bellezza è per Gongora un punto di partenza su cui delineare, attraverso un sistema di simboli visivi e linguistici, i percorsi labirintici del desiderio. La favola in Gongora diventa anche allegoria cosmogonica in cui le vicende del mito e i suoi significati – nascita e morte, amore e odio, ordine e caos – si fanno tutt’uno con l’origine dell’universo e con i ritmi vitali. L’introduzione e le note di Enrica Cancelliere, che del testo gongorino ha approntato anche la nuova traduzione, offrono molti spunti in questo senso utilizzando tutte le chiavi interpretative più moderne, dalla semiotica alla psicanalisi.

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Dettagli

1991
1 gennaio 1997
XXI-75 p.
9788806121808

Voce della critica

G¢NGORA, LUIS DE, Favola di Polifemo e Galatea

G¢NGORA, LUIS DE, Favola di Polifemo e Galatea
recensione di Poggi, G., L'Indice 1994, n. 2

Non deve, non può passare sotto silenzio la recentissima versione che della "F bula de Polifemo y Galatea" (il poema in 63 ottave composto da G¢ngora attorno al 1613) ha curato Rosario Trovato per una piccola casa editrice siciliana. E ciò non solo per l'importanza rivestita dalla "F bula" nel nutrito repertorio di Polifemi barocchi, non solo per il suo originale impasto linguistico (quella che, a partire da questa data, può definirsi come 'langue' gongorina), ma anche perché essa era già stata tradotta, appena due anni prima per Einaudi, da Enrica Cancelliere, la quale aveva avuto il merito (e il coraggio) di rompere un lungo periodo di silenzio attorno al poema e riaprire il discorso sulla sua non facile interpretazione.
Tradotta per la prima in Italia nel 1936 da Radames Ferrarin e ripresa negli anni sessanta da Luigi Fiorentino, la "F bula" aveva già catturato l'attenzione di Ungaretti, il quale ne aveva tentato una resa frammentaria, fondata sullo smembramento di due sole ottave e, in linea con le più autentiche attese dell'ermetismo, sull'isolamento e l'esaltazione di alcuni fra i loro più luminosi sintagmi. Esperimento, questo di Ungaretti, che già di per sé autorizzava a una fedeltà relativa nei confronti del poema: come dire insomma che il traduttore, impossibilitato a renderlo nel suo complesso, doveva accontentarsi di riecheggiarne, e nelle forma a lui più congeniale, sprazzi e momenti.
Così le quattro versioni italiane del "Polifemo" che dagli anni trenta a quest'ultimo scorcio di secolo si sono succedute rappresentano un curioso alternarsi di diversi tipi di fedeltà (o, se si preferisce, di infedeltà). Fedele al ritmo dell'ottava (anche a costo di qualche cadenza ottocentesca di troppo) quella di Ferrarin, più moderna e a tratti liberamente interpretante quella di Fiorentino, di nuovo attenta all'impianto sonoro e metrico (restituito con una singolare mistura di arcaismi e inflessioni moderne) quella della Cancelliere; più aderente agli aspetti intimi ed elegiaci che non all'immediata risonanza esteriore quella, ultima, di Trovato.
Se poi limitiamo questo confronto alle due più recenti edizioni, e dunque lo liberiamo da ogni possibile condizionamento cronologico e culturale, ci rendiamo conto della diversa, a volte opposta maniera in cui un testo può essere interpretato, specie se, come il "Polifemo", affida la sua unicità tanto a un'espressione lirica esplicitamente ridondante e marcata, quanto a una consequenzialità narrativa che, sebbene saldata a una serie di t¢poi mitici e di maniera, non può che esser letta nella sua interna, logica progressione. Ebbene, come reagiscono i due traduttori di fronte a questo conflitto insito nel poema? Sottoscrivendo, entrambi, una necessaria rinuncia alla sua complessità.
Rinuncia Trovato quando, attento alla misura di ogni singolo endecasillabo e alle sue interne pieghe o sfumature lessicali, tralascia di ricostruire il ritmo compatto dell'ottava che rimane aperta e come inconclusa; ma rinuncia anche la Cancelliere quando, aderendo con entusiasmo alla struttura sonora del poema, rispetta sì puntualmente (e con soluzioni a volte decisamente brillanti e suggestive) la scansione ritmica delle sue strofe, ma anche finisce per trascurare la successione dei suoi nessi logici, per travolgere, spinta da un piglio interpretativo che non sempre trova diretto riscontro nel testo, le sue pur significative barriere sintattiche e grammaticali.
Perché se una differenza esiste fra le rinunce messe in atto dai due traduttori, questa consiste nel fatto che mentre la prima sgorga da una lunga consuetudine con il testo, e dunque dalla consapevolezza del limite che esso pone alle sue letture soggettive, la seconda si radica nella aprioristica convinzione della sua assoluta esteriorità. Come se dar voce alle "rimas sonoras" del "Polifemo" (così le chiama il suo stesso creatore nella strofa che fa da proemio alla "F bula") bastasse per captarne i molteplici anfratti letterari, per riannodare i termini delle sue questioni retoriche reclamanti, come sempre in Gòngora, una e soltanto una chiave di lettura. Basterà citare due fra i luoghi più salienti del poema per capire come la loro diversa resa non sia soltanto frutto di un diverso approccio di traduzione, ma anche di un livello, più o meno profondo, di comprensione del testo. Si prenda ad esempio l'ottava 21 là dove, per significare l'abbandono dei pastori durante la canicola, Gòngora ricorre a una delle sue note formule condizionali ("sin pastor que los silbe, los ganados / los crujidos ignoran resonantes, / de las hondas, si en vez del pastor pobre, / el céfiro no silba, o cruje el robre"). Non c'è traccia di questa formula nella traduzione della Cancelliere ("non già dai fischi gli armenti guidati / fruscii più non ascoltan risonanti / di fionde e in luogo del pastore povero, / sibila zefiro, e fischia anche il rovero"), la quale interpreta l'allusione finale come una pennellata paesaggistica e ne tace così il significato bucolico, la fusione intima fra codice pastorale e naturale che è possibile invece ritrovare nella versione di Trovato: "senza pastore che alle greggi fischi, / queste non sanno i risonanti sibili / delle fionde, se invece del pastore / non fischia Zefiro o la quercia stride".
Viceversa la corrispondenza di amorosi sensi squisitamente letteraria che costella il "locus amoenus" nell'ottava 23 ("Dulce se queja, dulce le responde / un ruisenor a otro y dulcemente / al sueno da sus ojos [di Galatea] la armona, / por no abrasar con tres soles el dìa") viene complicata, nella versione della Cancelliere dall'introduzione di un terzo incomodo femminile che non trova motivazioni n‚ dal punto di vista logico n‚, tantomeno, da quello grammaticale: "Dolce si lagna, dolce a lei risponde,/ l'uno all'altro usignolo, e dolcemente,/ dona i suoi occhi l'armonia al sonno / per non bruciare con tre soli il giorno". Più fedele al passo, e alla sua segreta movenza lirica, Trovato: "Dolce si lagna, dolce poi risponde / un usignolo a un altro, e dolcemente / al sonno l'armonia spinge i suoi occhi / perché non bruci il giorno con tre soli". Insomma, mentre la lettura discreta e quasi confidenziale di Trovato riesce a ricostruire il testo nella sua esattezza e a rispettarne, al di là della griglia metrica che lo contiene, le pause e l'afflato lirico, quella che a voce alta recita la Cancelliere rischia di allontanarlo dalla sua originaria fisionomia eludendone i nessi retorici più profondi (come la 'dubitatio' dell'ottava 53, restaurata dal primo come fulcro archetipico del personaggio che dà il nome alla "F bula" e sacrificata, ancora una volta alla rima, dalla seconda).
E ciò a dimostrazione del fatto che il ritmo, la musica del "Polifemo" non è un dato a sé stante, un effetto vincolato alle cadenze specifiche del poema, ma piuttosto l'estrema e più visibile spia della sua riposta, ma operante concettosità. Musica, appunto, non chiasso o ingiustificato rumore.

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