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Il racconto ci riporta alle atmosfere tipiche di Pavese, ai suoi luoghi piemontesi solitari e ombrosi, al male di vivere dei suoi personaggi, al timbro sommesso e sconfortato della sua scrittura. E senz’altro al nucleo fondante del suo disagio esistenziale, all’aridità di affetti patita nel rapportarsi con gli altri, ulcerosa e insopprimibile. Protagonista è un giornalista trentenne introverso e scontento di sé, Corradino, che vive “con un’ansia annoiata” la propria quotidianità, passando da solo i pomeriggi estivi sulle rive del torrente Sangone, deciso ad abbronzarsi con la smania di cambiare pelle, “per diventare un altro”, senza però cambiare nessuna delle sue radicate abitudini. Animato da “un desiderio di solitudine antico”, e contemporaneamente ossessionato all’idea dell’immutabilità della sua esistenza, si rassegna a frequentare donne che non ama, finché una sera ritrova Cate, amica degli anni universitari: “un’impiegatuccia” divenuta artista di varietà, molto diversa da quando l’aveva conosciuta. I due riprendono a frequentarsi, dapprima con qualche imbarazzo e reticenza, in seguito inseguendo una disinvoltura difficile da ristabilire. Cate in maniera del tutto imprevista presenta all’amico il suo bambino di sette anni, che ha cresciuto da sola, lasciando intendere di averlo avuto proprio da Corradino, in un fuggevole rapporto sessuale. L’uomo entra in crisi, sospetta un inganno ma è tormentato da dubbi e sensi di colpa, da improvvisi desideri di paternità e paralizzanti paure: “un uomo, per quanto in gamba, è come un ponte che ha una certa portata e non oltre. Viene un carretto che pesa di più, e il ponte crolla”. Infine, tentato dalla volontà di ancorare la sua esistenza a un ormeggio più solido, propone all’amica di sposarla. Ma il racconto si chiude in modo vago e sospeso, con i due che si lasciano non si sa se per poco o per sempre, “dicendosi cose inutili e cortesi… senza cerimonie, quasi senz’imbarazzo”.
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