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Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda - Franco Andreucci - copertina
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2005
18 aprile 2006
304 p., Brossura
9788873950790

Voce della critica

È un libro difficile, a tratti affascinante, a tratti - diciamolo francamente - irritante, quello che segna il ritorno di Franco Andreucci alla ricerca storica dopo un lungo periodo di silenzio. Difficile non certo perché non sia scritto in modo chiaro e brillante, ma perché è arduo dipanare il filo che segue: il suo obiettivo è - dichiaratamente - la critica di un complicato intreccio di tradizione di partito, memoria e storiografia che prende forma nel Pci fra gli anni trenta e l'inizio degli anni cinquanta, e che, a giudizio di Andreucci, condiziona profondamente l'identità del partito, lasciando sopravvivere intatto nel tempo un nocciolo duro di stalinismo, fatto di strutture logiche dogmatiche, di un linguaggio esoterico, di un complesso di riti e simboli che configurano una subcultura chiusa in sé stessa.
Per dimostrare questa tesi l'autore fornisce un ampio e impietoso repertorio di citazioni dalla stampa comunista degli anni compresi fra il 1947 e il 1956, che costituisce un vero campionario di propaganda stalinista rozza e manichea. Partendo di qui, Andreucci sostiene non solo che "le idee dell'autonomia e della diversità non possano essere retrodatate" (il che, per la verità, sfonda una porta aperta già da molti anni da quella "tradizione storica" che è il suo idolo polemico), ma anche che "dovrebbe essere sottoposta a profonda revisione l'idea che il Pci abbia contribuito all'educazione politica delle classi subalterne", e che bisognerebbe mettere l'accento non sul suo apporto alla formazione di "moderni cittadini", ma su "una preparazione ideologica di massa, fondata su radicalizzazione estreme". L'immagine rassicurante e "liberale" dei comunisti italiani deriverebbe "dalle ricerche da essi stessi sollecitate a storici di professione o militanti", che hanno respinto o ignorato sistematicamente la visione dell'"altro", in particolare di tutto ciò che fuoriusciva da un "estremismo storicistico" e aveva a che fare con le altre scienze sociali, dalla sociologia alla politologia, dalla linguistica alla psicologia sociale.
Questa chiave di lettura suscita parecchie perplessità. Intanto, converrebbe contestualizzare di più l'immagine stalinista che il Pci rimanda di sé nel periodo considerato. Il Pci, dice Andreucci, "poteva riflettere con più serenità sui governi centristi e dosare con più moderazione il concetto di 'clericofascismo'": ma quale fosse il clima politico e culturale soffocante e bigotto dell'Italia di quegli anni, che effetti avesse sull'esercizio dei diritti politici dei militanti comunisti e sulla loro stessa vita quotidiana non lo ricorda mai. Ma soprattutto viene ipostatizzato e assunto come connotato costitutivo permanente del Pci un modello che prende forma negli anni più cupi della guerra fredda, tra il 1947 e il 1953. Ora, anche ammettendo che il segno lasciato da quegli anni sia profondo, per verificare quanto incida sull'identità comunista bisognerebbe spingere la ricerca ben oltre gli anni cinquanta: vedere cioè se la seconda metà di quel decennio e il decennio successivo non abbiano via via profondamente riplasmato quell'identità, ridimensionato quella tradizione, in parte almeno svuotato quell'universo di valori e di simboli.
Questo non viene fatto quasi mai: anche se proprio le rare incursioni nel dopo '56 compiute dall'autore mostrano - insieme a elementi di continuità - anche aspetti di forte discontinuità (valga per esempio il paragone fatto tra i funerali di Berlinguer e quelli di Togliatti). In realtà il confronto con l'identità comunista nel suo divenire è tutto racchiuso in una critica severa di una tradizione storiografica che sarebbe stata incapace di rinnovarsi, ma che è ricostruita in modo piuttosto caricaturale e forzato. Per Andreucci "inizia dalla svolta di Salerno (...) quella magica sequenza che, attraverso il 'partito nuovo' e la 'democrazia progressiva' conduce il Pci alla 'via italiana al socialismo', in una linea di continuità mai messa in discussione nella tradizione storica del partito". Anzi, addirittura la continuità fra VII Congresso del Comintern e svolta di Salerno sarebbe la linea su cui "si muove compatto il gruppo degli storici comunisti", per i quali la "doppiezza" sarebbe "un semplice slogan politico usato dalla propaganda del nemico".
L'equivoco sta qui nel concetto di "tradizione storiografica comunista", che Andreucci dilata fino ad abbracciare un po' tutti: dalle dispense delle scuole di partito a Ragionieri, a Spriano, a Vacca, ovviamente, passando per l'autore di questa nota, per arrivare a Martinelli, ma anche a Gozzini e a Pons. Senza accorgersi, da un lato, che questa "tradizione" - in ogni caso mai ridotta negli studi seri a un ruolo ancillare rispetto agli interessi di partito - si è con gli anni a tal punto arricchita e modificata da rendere difficile il presentarla come un blocco monolitico; e, dall'altro, che valenti storici italiani mai citati, giovani e meno giovani, assai difficili da inquadrare come "comunisti" (da De Luna a Bongiovanni, da Gualtieri a Neri Serneri a Spagnolo), hanno interagito con quella scuola, rifiutandone alcune tesi, ma facendone proprie molte altre, fra cui, soprattutto, quella secondo cui il Pci svolse un ruolo fondamentale nel radicamento della democrazia nel tessuto profondo del paese: tesi, peraltro, che fu avanzata tra i primi niente meno che da Ernesto Galli della Loggia nel 1976.
È curioso poi che, in un libro così attento alla "visione dell'altro", siano sì valorizzati con enfasi a volte spropositata gli studi, certo pregevoli, ma che poco o nulla attengono alla storia del Pci, di politologi e linguisti americani come Lasswell, Almond o Leites; ma vengano ignorati o quasi i contributi dei molti studiosi stranieri che hanno studiato a fondo il Pci, venendo sedotti, talvolta anche al di là del giusto, dalla sua diversità (da Sassoon a Ginsborg, da Marc Lazar a Joan Urban Barth, a Grant Amyot, e l'elenco potrebbe continuare). Eppure Andreucci ammette la profonda anomalia rappresentata dal "partito nuovo" nel panorama europeo, il "carattere rivoluzionario della sua fisionomia popolare", la sua capacità di "conquistare non solo operai e contadini, reti associative e sindacati, ma anche filoni di cultura e tradizioni politiche".
Non vorremmo però che a questo punto il lettore fosse indotto, per usare a un'espressione che ad Andreucci sembra molto cara, a buttare via il bambino con l'acqua sporca. E se dell'acqua sporca abbiamo parlato anche troppo, converrà rendere giustizia pure al bambino. Ci sono nel libro paragrafi molto convincenti, come quello intitolato I destini della dottrina - in cui è ricostruita la morfologia del sistema di pensiero "marxista-leninista" nell'età dello stalinismo maturo - che ricordano le migliori pagine di Andreucci sul "marxismo collettivo" della Seconda internazionale. In generale tutto il terzo capitolo del libro, Sistemi di valori e universi simbolici , offre spunti di riflessione originali e stimolanti, che gli storici del Pci dovranno tenere presenti più di quanto non abbiano fatto finora. Così come è da sperare che Andreucci, ritornando d occuparsi di una materia che conosce come pochi altri, e ampliando l'orizzonte temporale della sua indagine oltre gli anni cinquanta, consideri con maggiore equanimità e minori preconcetti i contributi alla ricerca di una "tradizione storiografica" che è stata ed è tuttora assai più vivace e meno provinciale di quanto egli sembri ritenere.

Aldo Agosti

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