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1993
1 luglio 1993
Libro universitario
228 p.
9788885861251

Voce della critica

JACCARD, RAYMOND / THéVOZ, MICHEL, Manifesto per una morte dolce, Edt, 1993
HUMPHRY, DEREK, Eutanasia: uscita di sicurezza, Elèuthera, 1993
recensione di Bignami, G., L'Indice 1993, n.10

Chi ha paura dell'eutanasia? Senza poter prevedere l'aspro dibattito attuale inevitabilmente segnato da molti "distinguo" - tra l'eutanasia passiva che si oppone ai sempre frequenti accanimenti terapeutici e l'eutanasia attiva, nell'ambito di quest'ultima, tra l'atto interamente autogestito dal soggetto interessato, il suicidio assistito e l'omicidio compassionevole ('mercy killing) -, una risposta chiara e tagliente già l'aveva data Benjamin Constant (1767-1830): "Il suicidio è un mezzo di indipendenza, per questo tutti i poteri lo detestano".
La citazione, che si trova a pagina 33 del "Manifesto" di Jaccard e Thévoz, efficacemente connota questo pamphlet lucido e appassionato contro chiunque neghi il diritto di autodeterminazione dei soggetti di fronte alle vitali questioni di vita e di morte. Infatti, proprio il caso dell'eutanasia si presta meglio di ogni altro a sfrondare i vari poteri chiamati in causa dei loro vantati allori Millantati crediti, a mostrare la loro spietata necessità di riprodursi e rafforzarsi a spese dei loro aministrati. "Coloro che ostinatamente impediscono agli altri di morire in genere sono gli stessi che hanno impedito loro di vivere".
Per lo Stato, che "liberatosi dai legami con la Chiesa, non ha tuttavia finito di portare il lutto deva religione", e ha quindi imparato a sfruttare "l'universo morboso della colpa" per perseguire i suoi obiettivi di "totalitarismo molle", il suicidio in generale e la "morte dolce" in particolare costituiscono "una manifestazione di disaffezione sociale, una trasgressione, un atto di inciviltà, una insubordinazione". Per Stato e Chiesa insieme, spesfruitori della morte-sacrificio possibilmente violenta e crudele, la "morte dolce" non solo manca di qualsiasi utilità, ma è addirittura diserzione da colpevolizzare e da stigmatizzare.
Per la medicina, il progresso tecnico-scientifico è risultato inseparabile da un autoritarismo terapeutico che deve gestire tutto, quindi anche la morte. E nel capitoletto "Elica e Pret-a-porter", Jaccard e Thévoz riescono a dire in poche righe molte amare verità sui comitati etici di oggi, dove pochi opinion leaders, definiti ''bastardi'' nel senso sartriano del termine", producono etica su misura, giocando sul "consenso supposto, cioè un organismo molle, ad alto indice di viscosità, sempre decentrato", alimentando "un processo di assegnazione circolare e sfuggente che Sartre ha definito alterità seriale".
Questo miniriassunto del lavoro di Jaccard e Thèvoz non deve far ritenere che il "Manifesto" sia fatto solo di aspra negazione e di colta invettiva. Al lettore, tuttavia, va lasciata tutta intera la scoperta delle parti propositive e positive che si trovano soprattutto negli ultimi capitoli: come quello "Per un pluralismo deontologico"; o quello "Morire della propria morte" che significativamente si chiude con i versi di T.S. Eliot ("Via, via, via disse l'uccello: il genere umano / non può sopportare troppa realtà"); o quello intitolato "Il capitano dei pompieri", dove alla "morte dolce" liberamente e consapevolmente decisa da chi ha pienamente vissuto, si contrappone il dramma di molti suicidi e tentati suicidi di chi non è mai riuscito a esistere per se stesso, quindi è sospinto a compiere un ultimo e tragico tentativo di esistere agli occhi degli altri. In altre parole proprio la dura condanna dell'esproprio della morte diventa uno dei più significativi elogi della vita, del pieno diritto di ciascuno a viverla tutta come un bene di valore non misurabile, assolutamente inalienabile. Questo è un messaggio che sta oggi perdendo la sua connotazione utopico-elitaria: lo indica il consenso crescente, sia tra i medici sia tra i non medici in diversi paesi, per una "morte dolce" intesa come riappropriazione dei processi di vita. Senza un tale consenso, un film come "Un cuore in inverno" del francese Sautet, forse non destinato alle masse, ma neanche riservato ai soggetti delle minoranze più colte - cioè a coloro il cui suicidio, insieme a quello dei ricchi e dei potenti, è sempre stato rispettato o addirittura additato come esempio -, non si potrebbe concludere con l'omicidio compassionevole compiuto dal liutaio Stéphane accedendo alla richiesta del vecchio amico e maestro. Anzi, di questo atto il regista si serve per spiegare allo spettatore incerto come Stéphane non sia quel mostro di egoismo, di indifferenza e di cinismo che egli stesso sostiene di essere, ma piuttosto l'unico tra i vari personaggi che, essendo in pieno possesso di doti eccezionali di intelligenza e umanità, non può che vivere in un'alienazione quasi autistica dai suoi contemporanei.
Quanto al lavoro del noto Humphry, fondatore della Hemlock Society (Società della cicuta) che si batte per il diritto all'eutanasia attiva, un lettore non adeguatamente preparato da opere precedenti dello stesso autore o di altri potrebbe restare sconcertato. Infatti il libro non tenta di svolgere in modo organico il discorso di fondo, cioè quello sul diritto all'eutanasia laddove la malattia grave e inguaribile (non necessariamente terminale: vedi i casi della tetraplegia e dell'Alzheimer) non solo rende la vita insostenibile, ma diventa anche un processo distruttivo del patrimonio di vita e di rapporti con gli altri precedentemente costruito.
Inoltre l'autore, minuziosamente illustrando le procedure che consentono un atto auto-eutanasico razionale ed efficace, allo scopo di ridurre al minimo le complicanze morali e legali del suicidio assistito e dell'omicidio compassionevole - procedure che debbono avviarsi molto prima che si verifichi l'effettiva necessità dell'atto stesso - vuole soltanto proporre un rimedio temporaneo sinché non maturino i tempi per legittimare soluzioni più civili e umane, cioè l'autorizzazione ai medici di compiere l'atto eutanasico in determinate circostanze e a determinate condizioni, come in Olanda. Qui il libro dovrà fare i conti con una cultura come quella italiana, che ancora rifiuta di considerare e prevedere le evenienze negative (vedi l'annosa questione delle cinture di sicurezza e della messa a terra degli elettrodomestici), e anche con problemi più strettamente tecnici (le cosiddette denominazioni generiche dei farmaci sono identiche o simili nei vari paesi, ma variano notevolmente le denominazioni commerciali).
Tuttavia questo "Manuale Hoepli" dell'auto-eutanasia apre frequenti spazi alla discussione di argomenti essenziali, come quello della coscienza religiosa, che non dovrebbe mai costituire un ostacolo insuperabile, a meno di credere nel Dio crudele invocato da Iago. Tale argomento è stato già efficacemente affrontato in Italia da cattolici non allineati. Giovanni Ranzoni, in particolare, precisato che un dono veramente liberale - quello della vita - non crea sudditanza ma responsabilità, ha sostenuto che non può esservi per il credente una regola assoluta, ma piuttosto la possibilità di rinunciare al dono quando questo non è più compatibile con la sua dignità. Gianni Baget Bozzo, ricordata la considerazione benevola del suicidio per motivo nobile che si trova nella tradizione cristiana (Sant'Agostino), ha sostenuto che l'invito a lottare contro la sofferenza, che sorge dal profondo del cristianesimo, non può estendersi sino all'obbligo di una sofferenza a oltranza da parte del malato terminale: questi, infatti, ha adempiuto più di altri uomini all'obbligo di accettare la vita.
Altrettanto essenziale è la questione della "china scivolosa" ('slippery slope') su cui insistono molti esperti di bioetica, cattolici e non, evocando gli spettri dei delitti eugenici ed eutanasici compiuti dai nazisti. Non si può accettare infatti l'assimilazione di una logica di umanità e compassione a una logica di dominio e sterminio, cultura di vita la prima, di morte la seconda. Né è accettabile la rinuncia - da parte di una società civile nel suo insieme e di un corpo professionale specifico come quello medico - a cercare soluzioni i razionali e umane ai problemi più gravi, solo perché in passato una banda criminale e fanatica, favorita da una cultura di massa di cieca obbedienza, ha usato gli strumenti della scienza e della medicina così come li usarono i nazisti. In tutti i campi dell'agire e del pensare umano, i cambi di esigenze hanno prodotto modifiche profonde nelle regole, nelle professionalità, nelle vocazioni; quindi l'aggruppamento dei medici al giuramento ippocratico contro l'eutanasia di oltre duemila anni fa, insieme alla loro vocazione di sacerdoti laici all'autoritarismo terapeutico, che tutto vuole controllare e dirigere, costituisce un arcaismo per il quale gli stessi medici già stanno pagando un prezzo elevato sul piano della credibilità.
Medici e non medici insieme dovrebbero piuttosto lavorare per risolvere quei problemi non lievi che inevitabilmente emergono - come dimostrano sia l'esperienza olandese che i travagli della giurisprudenza americana - quando si inizia a rimuovere i blocchi di potere e di principio, sia ideologici sia corporativi e giuridici. In Italia, un passo sostanziale in questa direzione si è compiuto con l'istituzione della Consulta italiana di bioetica di ispirazione laica, che oltre a proporre la "Carta di autodeterrninazione" a tutela dagli accanimenti terapeutici, riportata in appendice al libro di Humphry, ha preso chiaramente posizione a favore dell'eutanasia attiva secondo il modello olandese. Inevitabile quindi è lo scontro diretto con le parti tradizionali, cioè non solo la Chiesa e la corporazione medica ufficiale, ma anche quel Comitato nazionale per la bioetica istituito dal governo Andreotti con una preponderanza di componenti schierati sul fronte vaticano: un Comitato, quindi, inadatto a esprimere le posizioni che competono a un organo dello stato di diritto garante dei diritti di tutti, nel rispetto delle libertà e opinioni di ciascuno, residuo di uno stato ideologico e morale le cui "frodi pie", materiali e non, sono ormai sin troppo vistose.
In conclusione, ben vengano opere provocatorie e difficili, come quella di Jaccard e Thévoz e quella di Humphry, a farci prendere coscienza più piena delle nostre ambiguità e dei nostri ritardi; ad accelerare la decomposizione di vecchi poteri e ideologie i quali si oppongono a una spinta al cambiamento che appare robusta, ma ancora priva di una direzione precisa; a riproporre come obiettivo primario le esigenze inascoltate e i diritti non espropriabili, come quello di possedere la propria vita e quindi di morire della propria morte, non di quella che serve oscure fantasie di potenza e concreti scopi di dominio.

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