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Europa: cosa ci attende? L'unione europea tra mercato e istituzioni - Mauro Marè,Mario Sarcinelli - copertina
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Descrizione


Per comprendere il nostro futuro in Europa occorre analizzare le funzioni di stabilizzazione reale e nominale, di redistribuzione del reddito, di allocazione delle risorse, di imposizione fiscale e la loro ripartizione tra i diversi livelli di governo dell'Unione.
È l'approccio originale di questo libro, accessibile anche ai non economisti. Un'analisi che conduce gli autori a discutere l'interazione tra istituzioni e mercato, nel segno del federalismo progressivo.
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Dettagli

2
1998
10 aprile 1998
Libro universitario
316 p.
9788842054900
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Indice

Prefazione – Introduzione; 1. Lo sviluppo dell'Europa; 2. L'Unione Europea tra mercato e istituzioni; 3. Quo vadis Europa?; 4. La teoria della finanza pubblica multilivello; 5. L'Unione monetaria; 6. La funzione di stabilizzazione; 7. Le funzioni di redistribuzione e di allocazione; 8. Il potere impositivo; 9. Conclusioni; Bibliografia; Sigle utilizzate; Indice degli argomenti.

Voce della critica


recensione di Vaccarino, G.L., L'Indice 1998, n. 7

C'era da aspettarsi che l'avvio della fase finale dell'Unione monetaria europea - con il trasferimento (dal 1° gennaio '99) dei poteri monetari dalle singole banche centrali nazionali alla Banca centrale europea (Bce), deciso a Bruxelles il 2 maggio, e con la partecipazione dell'Italia dopo il "tour de force" di finanza pubblica del '97 - si accompagnasse a una vera e propria messe di pubblicazioni su significato, conseguenze e implicazioni economiche e politiche della moneta unica. Tra le molte che si rivolgono ai lettori non specialisti di cose economiche se ne segnalano - per chiarezza, brevità, efficacia e autorevolezza - almeno tre: il volumetto di Bini Smaghi (alto funzionario dell'Ime, Istituto da cui nasce la Bce), l'intervista di Monti (Commissario europeo molto noto al largo pubblico), e il libro di Marè e Sarcinelli (il secondo, oggi presidente della Banca nazionale del lavoro, proviene dalle alte cariche della Banca d'Italia).
Finora, in Italia, il problema dell'Europa e dell'Euro, agli occhi dell'opinione pubblica, ha avuto un solo significato: la necessità di soddisfare entro il '97 i famosi vincoli economici e di finanza pubblica stabiliti dal trattato di Maastricht. Tra tutti, decisivo per l'ammissione italiana è stato l'aver ottenuto un deficit di bilancio pubblico inferiore al fatidico 3% in rapporto al reddito del paese. Resta invece ancora molto lontano, com'è noto, quello relativo al 60% di debito pubblico cumulato in rapporto al reddito, che impegnerà in modo pesante la finanza pubblica italiana per molti anni a venire. Ma occorre anche aggiungere che la rincorsa ai vincoli per l'ammissione all'euro, nonostante i rischi economici e politici (ammessi "ex post" anche dal ministro Ciampi) e gli oneri che ha finora comportato per gli italiani, è stata largamente condivisa dall'opinione pubblica, come hanno ripetutamente indicato i sondaggi. Il risanamento della finanza pubblica, del resto, è necessità vitale per il paese, e non solamente un capriccio del trattato di Maastricht, ragion per cui, in Italia, la discussione è avvenuta di fatto solo sui tempi e sulle modalità con cui realizzare l'obiettivo del riequilibrio dei conti pubblici, e sui costi - certamente elevati - che si sarebbero dovuti sostenere nel caso alternativo di una politica di risanamento più lenta, associata, naturalmente, a un ingresso ritardato nell'Uem. Ciò significa dunque che da noi non si è mai posto realmente il problema che in altri paesi, con una finanza pubblica sostanzialmente "in ordine", è stato invece ampiamente dibattuto: quello relativo ai vantaggi, ai costi, e, dall'altro lato, ai rischi economici e politici che una unione monetaria presenta per i paesi europei, date le loro attuali strutture economico-sociali.
La risposta a questa domanda è molto meno scontata di quanto non si aspetterebbe un certo europeismo nostrano di senso comune, secondo il quale, una volta che siano stati soddisfatti integralmente i requisiti di Maastricht, emergeranno spontaneamente tutti i vantaggi della moneta unica in termini di stabilità, assenza di inflazione, maggiore sviluppo e competitività sui mercati mondiali "globali", occupazione. La teoria economica delle unioni monetarie (nota agli addetti ai lavori con il nome di "teoria delle aree monetarie ottimali"), infatti, se applicata all'Europa, nel migliore dei casi non fornisce risposte rassicuranti in proposito. Nel peggiore, porta alla conclusione secondo cui, date le caratteristiche strutturali attuali delle economie europee, i costi e i rischi economici e politici di una unificazione monetaria possono essere decisamente superiori ai vantaggi: la perdita della sovranità monetaria a livello nazionale rischia infatti di mettere in gravi difficoltà i singoli paesi, quando qualcuno di questi dovesse far fronte a squilibri causati da shock che lo colpissero in modo differenziato rispetto al complesso dell'unione (si parla in tal caso di "shock asimmetrico"), minacciando così la sostenibilità dell'unione tutta. Il singolo paese, privo di un'autonoma politica monetaria e del cambio, inserito in un'unione che non prevede i trasferimenti caratteristici del "welfare" che sono presenti, ad esempio, negli Stati Uniti a livello federale, per evitare cadute di reddito e di occupazione potrebbe far conto solo su due fattori. Il primo è costituito dalla politica di bilancio nazionale (variazione delle spese e/o delle entrate pubbliche), che però potrebbe essergli preclusa dal massimale del 3% sul disavanzo, se al momento della crisi il disavanzo fosse già nei pressi del limite o se, come nel caso dell'Italia, il paese fosse stabilmente impegnato a ridurre il debito cumulato. In mancanza di margini di manovra sul bilancio, il secondo fattore potrebbe essere costituito da una forte flessibilità dei prezzi e dei salari verso il basso, che resterebbe la sola a poter svolgere il ruolo di supplenza degli altri strumenti mancanti o indisponibili, al fine di consentire, anche nel breve periodo, il recupero della competitività relativa perduta. Al di là vi sarebbe solo l'accettazione del declino e la mobilità della manodopera, anche verso l'estero. È chiaro che tutto ciò non solo è molto lontano dalla realtà attuale dei paesi dell'Europa continentale, ma ne rappresenta in un certo senso addirittura l'antitesi.
È a questo punto che entrano in scena le recenti pubblicazioni: Bini Smaghi, Monti, Marè e Sarcinelli sono tutti decisamente favorevoli all'Unione monetaria. Oltre e più che ai problemi di riequilibrio di breve periodo, essi guardano alle prospettive strutturali (cioè di lungo periodo) degli undici paesi che hanno aderito all'euro. Particolarmente limpido, a questo proposito, è il volumetto di Bini Smaghi, che si segnala come un'ottima introduzione di carattere divulgativo ai vantaggi (possibili) dell'euro. Dopo aver spiegato le modalità tecniche del passaggio dalle monete nazionali all'euro, le regole di Maastricht sui bilanci pubblici, le ragioni che all'inizio degli anni novanta hanno imposto all'Europa di andare oltre lo Sme (il sistema dei cambi tra le valute nazionali in vigore da quasi due decenni), negli ultimi due capitoli l'autore ridimensiona il peso dei rischi inerenti ai processi di aggiustamento macroeconomici in presenza di shock. Il ragionamento è svolto mettendo in rilievo il fatto che i processi di riequilibrio alternativi - con o senza l'euro -, diversi nella loro logica economica, non sono fondamentalmente diversi quanto al risultato finale che devono conseguire in termini reali. Il mantenimento della sovranità monetaria non può influenzare in modo durevole i redditi reali e l'occupazione, e quindi, purché cambino i comportamenti dei vari attori economici, e purché i bilanci pubblici in condizioni normali siano mantenuti sufficientemente al di sotto dei vincoli di Maastricht, l'euro non comporta rischi o svantaggi consistenti, ma solo benefici.
Siamo qui tornati di nuovo al punto precedente. Non è tutto ciò fuori dalla portata attuale dei paesi dell'Europa continentale? A questo proposito si può cogliere il senso più profondo del progetto che sta alla base dell'Unione monetaria appoggiandosi alle riflessioni economiche e politiche a largo raggio di Mario Monti. La costituzione dell'Unione monetaria e il passaggio all'euro non sono motivati essenzialmente dalla ricerca sul piano tecnico-economico dell'assetto istituzionale e monetario che meglio risponda alle caratteristiche dei paesi europei così come essi sono attualmente. È invece un disegno, squisitamente politico, che consiste nell'introdurre un quadro di vincoli oggettivi e un insieme di leve che costringano i vari paesi alla liberalizzazione, alla flessibilità delle strutture e al mutamento dei comportamenti dei soggetti, particolarmente là dove - si tratti di singoli settori o mercati, di aree o di interi paesi - essi sono maggiormente appesantiti o impediti o distorti da una regolazione pubblica ingiustificata, dall'eccesso di tassazione e di spesa pubblica, o dalle troppe protezioni per gli occupati. Monti non è un oppositore del modello continentale europeo come tale. Apprezza anzi il modello tedesco di economia sociale e di mercato. Tuttavia le economie dei singoli paesi europei sono gravate da numerosi fattori di "eurosclerosi". L'Unione monetaria le mette di fronte a un'alternativa di fondo: liberarsi da quei fattori, cogliendo le possibilità connesse alla liberalizzazione e al cambiamento, o condannarsi al declino.
C'è da sperare, naturalmente, che questo tipo di cura non debba essere somministrata in forma troppo pesante e concentrata nel tempo per il concorso di circostanze sfortunate, mettendo sotto eccessiva pressione i bilanci pubblici e i mercati del lavoro nazionali, con la conseguenza di suscitare reazioni di rigetto antieuropee in un'opinione pubblica già non troppo convinta, che potrebbero avere effetti imprevedibili sul piano politico nazionale e sovranazionale, e forse mettere anche in crisi tutta la costruzione. Allo stesso tempo gioverebbe molto un più netto avanzamento in direzione dell'unione politica, con l'assegnazione di più ampi poteri di coordinamento a livello comunitario tra le politiche di bilancio nazionali, se non addirittura con la costituzione di una vera e propria politica di bilancio di tipo federale. È quanto sostengono nel loro libro Marè e Sarcinelli, che andando opportunamente al di là dei temi strettamente economici dichiarano programmaticamente di non essere disposti a rinunciare all'idea, oggi minoritaria, di un possibile, anche se difficile, futuro politico federale per l'Unione europea.



COS'ALTRO LEGGERE SULL'EURO

La letteratura sull'euro è ovviamente molto ampia, soprattutto se si dà uno sguardo anche a ciò che viene pubblicato all'estero. La scelta è di necessità arbitraria. In italiano, accanto ai libri recensiti in questo numero, occorre segnalare Carlo Secchi, "Verso l'Euro. L'Unione Economica e Monetaria motore dell'Europa unita", Marsilio, Venezia 1998, pp. 143, Lit 20.000, molto utile e dettagliato nella ricostruzione delle varie fasi che hanno portato all'Unione economica e monetaria europea. Va tenuto anche presente "Euro", a cura di Luca Paolazzi, Il Sole 24 Ore, Milano 1998.
Una classica introduzione alla teoria delle unioni monetarie, che espone dettagliatamente anche la teoria delle aree monetarie ottimali, si trova in Paul De Grauwe, "Economia dell'integrazione monetaria", Il Mulino, Bologna 1996, trad. dall'inglese di Federica Balugani, pp. 226, Lit 28.000 (l'edizione originale inglese è del 1992, successivamente aggiornata; è prevista una nuova edizione italiana per l'autunno). In lingua inglese è molto importante, e può essere letto anche da non economisti, il n. 4 (fine 1997) di "The Journal of Economic Perspectives", che contiene i saggi di Charles Wyplosz, "Emu: Why and How It Might Happen*, e di Martin Feldstein, "The Political Economy of the European Economic and Monetary Union: Political Sources of an Economic Liability", che testimoniano chiaramente, anche nelle loro differenze, la varietà dei giudizi sull'Unione monetaria europea dal punto di vista della scienza economica. Feldstein, economista americano molto noto, di orientamento liberista, sottolinea il carattere essenzialmente politico, e non economico, del progetto monetario europeo. La sua valutazione è che "gli effetti economici netti" saranno negativi per gli europei nel medio e lungo termine. Più sfumato, invece, il giudizio di Wyplosz, che fornisce anche un'ampia e aggiornata bibliografia sull'argomento.
Su un piano più giornalistico, ma comunque molto utile e autorevole, è la rassegna allegata al settimanale "The Economist" dell'11 aprile 1998, intitolata significativamente "An Awfully Big Adventure", un'avventura terribilmente grande. Dell'"Economist" è anche da vedere "Will the Euro Work?", curato dall'Economist Intelligence Unit, che può essere richiesto alla rivista o, in Italia, alla Banca nazionale del lavoro. Da segnalare infine il dibattito aperto su "Le Monde", a cura del Centro Robert Schuman dell'Istituto universitario di Firenze (5 maggio 1998 e giorni successivi), con interventi di Mény, Maravall e Scharpf e altri.

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La recensione di IBS

Per comprendere il nostro futuro in Europa occorre analizzare le funzioni di stabilizzazione reale e nominale, di redistribuzione del reddito, di allocazione delle risorse, di imposizione fiscale e la loro ripartizione tra i diversi livelli di governo dell'Unione. è l'approccio originale di questo libro, accessibile anche ai non economisti. Un'analisi che conduce gli autori a discutere l'interazione tra istituzioni e mercato, nel segno del federalismo progressivo.

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