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L'età dell'odio. Esportare democrazia e libero mercato genera conflitti etnici? - Amy Chua - copertina
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L'età dell'odio. Esportare democrazia e libero mercato genera conflitti etnici?
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L'età dell'odio. Esportare democrazia e libero mercato genera conflitti etnici? - Amy Chua - copertina

Descrizione


Passando in rassegna il reale impatto della globalizzazione economica in ogni parte del mondo, dall'Africa all'Asia, dalla Russia all'America Latina, Amy Chua dimostra come in ciascuna di queste regioni il libero mercato abbia concentrato una ricchezza sproporzionata nelle mani di una ristretta minoranza etnica, diventando così oggetto di un odio da parte della "maggioranza impoverita" che spesso si traduce in atti di efferata violenza. Ma queste sono davvero situazioni locali? Non sono piuttosto interi paesi ad essere "minoranze economicamente dominanti", a livello regionale e globale? Gli Stati Uniti non rappresentano forse oggi la principale "minoranza economicamente dominante" del mondo?
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Dettagli

2004
26 febbraio 2004
374 p., Brossura
9788843029020
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Indice

Ringraziamenti / Introduzione: globalizzazione e odio etnico / - Parte I. L'impatto economico della globalizzazione / 1. Rubini e risaie / 2. Feti di lama, latifondi e «la blue chip numero uno» / 3. Il settimo oligarca / 4. Gli "ibo del Camerun" / - Parte II. Le conseguenze politiche della globalizzazione / 5. La ripercussione sui mercati / 6. La ripercussione sulla democrazia / 7. La ripercussione sulle minoranze economicamente dominanti / 8. La commistione del sangue- Parte III. L'etnonazionalismo e l'Occidente / 9. Il lato oscuro delle democrazie liberiste occidentali / 10. La santabarbara mediorientale / 11. Perché ci odiano / 12. Il futuro della democrazia liberista / Postfazione.

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Voce della critica

Charles Krauthammer, uno dei più autorevoli neoconservatori americani, ha significativamente definito la politica statunitense degli ultimi anni, ispirata in buona misura dal gruppo intellettuale di cui egli fa parte, come "globalismo democratico". Non si tratta, a suo parere, di una mera riproposizione dell'internazionalismo del presidente Wilson, perché questi immaginò la diffusione dei valori democratici per mezzo di istituzioni internazionali ancora da inventare, e oggi quelle istituzioni (l'Onu in primis) vengono giudicate dai neocons "corrotte" o, nella migliore delle ipotesi, "inutili". Il globalismo democratico, secondo Krauthammer, consiste invece nel fare a meno di legalismi fittizi e nel ricorrere realisticamente alla potenza per l'esportazione della libertà e della democrazia. Non a caso gli odierni fautori della politica estera americana sono descritti dai loro ammiratori come "entusiasti della democrazia", come dei "realisti" guidati però da grandi ideali. La loro speranza sarebbe di eliminare il sottosviluppo, i conflitti e ogni genere di pericolo per la sicurezza del mondo introducendo ovunque il libero mercato e la democrazia.

A un quadro di questo genere corrisponderebbero effettivamente, nel testo di Amy Chua, le linee direttive dell'azione statunitense sulla scena internazionale. Tale postulato (discutibile, nella misura in cui si possono formulare differenti ipotesi circa gli obiettivi reali della politica estera americana) non è comunque l'unico su cui si regge il lavoro. Un'altra idea fondamentale dell'autrice è che un ottimo modello per descrivere la realtà globale sia rappresentato dal dominio economico esercitato da "minoranze etniche". Al fine però di consentire la più ampia applicabilità possibile della nozione di "etnia", i suoi contorni restano nel libro molto vaghi, includendo l'appartenenza a un gruppo su varie possibili basi (linguistica, religiosa, tribale, culturale o di altro genere). Anche gli altri due concetti portanti del volume, quelli di "economia di mercato" e di "democrazia", vengono peraltro adoperati in modo opinabile. L'economia di mercato che gli Stati Uniti hanno promosso nel mondo non occidentale, a parere dell'autrice, non è quel sistema economico che vige in Occidente, e che prevede forme più o meno consistenti di regolamentazione statale e di distribuzione della ricchezza; è al contrario un "crudo capitalismo liberista", fatto di privatizzazioni, abolizione dei sussidi, liberalizzazione del commercio e incentivi per gli investimenti esteri. Indipendentemente dal fatto che la realtà sia "migliore" o "peggiore", un'immagine così schematica dell'economia mondiale non pare interamente condivisibile. È proprio vero, oltre tutto, che nel mondo non occidentale la politica americana si riduca a una mera attuazione dei canoni del liberismo teorico classico?

Venendo poi alla democrazia, l'impegno degli Stati Uniti, secondo l'autrice, è teso generalmente alla realizzazione immediata di elezioni a suffragio universale, senza dare il giusto peso a "principi più sostanziali quali l'uguaglianza di fronte alla legge o la tutela delle minoranze". Anche in questo caso si potrebbe avanzare qualche perplessità: difficilmente invero nel patrimonio culturale del movimento conservatore che ha ispirato gli orientamenti della Casa bianca negli ultimi anni è possibile rintracciare una strategia democratica riduttiva come quella descritta nel libro.

Sono queste, comunque, le premesse sulla cui base Amy Chua costruisce le proprie argomentazioni. Gli americani, vale a dire la "minoranza dominante" a livello mondiale, stanno mostrando un entusiasmo eccessivo nei confronti della "globalizzazione" del mercato e della democrazia. Il liberismo, infatti, finisce per agevolare, nei paesi in cui viene imposto, un completo controllo sociale da parte delle minoranze nazionali economicamente dominanti. In quelle condizioni la democrazia favorisce la comparsa e l'ascesa politica di demagoghi che trasformano la minoranza in capro espiatorio e fomentano la nascita di movimenti etnonazionalisti militanti, in presenza dei quali si generano conflitti sanguinosi. Sempre sulla base della semplificazione di nozioni quali "democrazia", "mercato" ed "etnia", l'autrice elabora altresì la propria critica ai movimenti no global (o new global), la cui lotta è rivolta non tanto contro la globalizzazione in generale, quanto contro il "neoliberismo" globale. Questi movimenti perdono di vista così, secondo Amy Chua, i rischi che si correrebbero limitandosi ad attribuire democraticamente, come essi chiedono, il potere alle maggioranze povere: i drammatici risultati della democratizzazione in Ruanda e in Serbia starebbero a dimostrarlo.

La tesi centrale del testo, nella sua apparente chiarezza e logicità, crea pertanto dei bersagli fittizi (un'intenzionalità americana e un'opposizione new global spogliate di ogni complessità e articolazione), si regge su postulati tutt'altro che inoppugnabili (come il modello etnico-economico per rappresentare realtà assai diverse tra loro) e produce, di conseguenza, evidenti "forzature". Una su tutte, invero inquietante: il successo degli Stati Uniti nell'instaurare una "democrazia liberista" in Germania nel secondo dopoguerra sarebbe stato dovuto semplicemente al fatto che nel 1945 il paese, provvisto in passato di minoranze "etniche", "aveva ormai sterminato quasi tutti i suoi cittadini non ariani".

Meno discutibili, ma non per questo frutto di una rigorosa e originale elaborazione, sono le conclusioni del volume. Gli americani, ovvero la minoranza dominante globale, dovrebbero sapere offrire "contributi significativi e visibili" (dall'assistenza sanitaria alla cura di problemi cronici, come quello della deforestazione, "che destano la collera delle popolazioni autoctone") all'economia di quei paesi in cui prosperano. Nel caso iracheno, in particolare, gli Stati Uniti, secondo Amy Chua, prima di "imporre" la democrazia, devono dunque assicurare i servizi fondamentali e l'ordine, oltre a impegnarsi con "atti simbolici" che mostrino la volontà di dare le ricchezze petrolifere del paese al suo popolo. Si tratta di proposte che certamente molti condividono, ma non nuove, né necessariamente discendenti dagli artifici argomentativi adoperati in questo libro.

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