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1997
1 gennaio 1997
252 p., ill.
9788880120605

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Billy Wilder (regista e sceneggiatore di capolavori immortali quali "A qualcuno piace caldo" e "La fiamma del peccato") aveva un cartello appeso sopra la scrivania del suo ufficio: "How would Lubitsch do it?". Questo testo approfondisce la figura e il lavoro di uno dei più grandi maestri del cinema. Caldamente consigliato a tutti gli appassionati. Consiglio vivamente tutti i libri della stessa collana, saggi sul cinema e sui registi, ne possiedo diversi e sono tutti scritti con competenza.

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Voce della critica

SALOTTI, MARCO, Ernst Lubitsch

FINK, GUIDO, Ernst Lubitsch
recensione di Pirolini, A., L'Indice 1997, n.10

Un libro sul cinema di Ernst Lubitsch è sempre una scommessa, dato che, nonostante gli studi prestigiosi di autori come William Paul, Jacqueline Nacache e Guido Fink, i suoi film non hanno goduto di quell'attenzione meticolosa che teorici del racconto cinematografico come Chatman, Branigan, Metz o Casetti hanno dedicato a John Ford, Alfred Hitchcock e ad altri grandi inventori di forme. Eppure, il celebrato "touch" del regista tedesco è il prodotto di una serie di sfide linguistiche e sintattiche indubbiamente alte, che vengono a elaborare un sistema stilisticamente omogeneo e narrativamente ricco, per nulla da meno di quello dei registi sopracitati. L'opera di Lubitsch, insomma, attraversa in sordina gli anni della fortuna del cinema classico presso la semiotica del film, per giungere ai giorni nostri quasi dimenticato: sono pochi, in quest'ultimo decennio, i testi che si segnalano per l'acutezza dell'interpretazione - la monografia dei francesi Binh e Viviani -, per la complessità dell'analisi - lo studio del 1992 di Sabine Hake sui film del primo periodo -, o per la novità dell'approccio - il "work in progress" multimediale di Emanuela del Monaco e Alessandro Pamini.
In questo panorama desolato, una nuova monografia (la terza in Italia) come quella di Marco Salotti non può che essere salutata con piacere, soprattutto quando si scopre che l'autore ha deciso saggiamente di non riesumare i temi cari alla vecchia critica lubitschiana, né di confrontarsi con le interpretazioni più consolidate, preferendo invece cimentarsi in un'avventura nuova, libera da ogni condizionamento e depurata dai vecchi schemi. Partendo da una visione panoramica sul cinema tedesco e su quello muto americano, per scendere più nel dettaglio per quanto riguarda il periodo sonoro (secondo la posizione ormai consolidata che vede nelle pellicole degli anni trenta e quaranta il periodo d'oro del cinema di Lubitsch), Salotti mostra una certa abilità nel muoversi sia fra le tematiche ricorrenti nell'opera del regista, sia nel contesto storico e culturale in cui essa è situata, dando vita a un ritratto piacevole e ben strutturato.
Questa avventura personale e appassionata, però, non getta nuova luce sui complicati meccanismi linguistici che presiedono alla narrazione lubitschiana, e l'indipendenza rispetto alle interpretazioni che lo hanno preceduto non serve certo a rimediare alle dimenticanze degli anni settanta a cui accennavamo sopra: l'autore è bravo a recensire i temi e i motivi che costituiscono la poetica lubitschiana, a raccontarne la trasformazione che subiscono di film in film, a mostrarcene la variegata rappresentazione; meno interessato si dimostra, invece, ad analizzare le modalità formali attraverso cui un tale sistema di contenuti viene messo in scena, a tal punto da far assumere al proprio lavoro l'aspetto di un buon vecchio testo di critica cinematografica, anziché quello di uno studio analitico e approfondito.
A conferma di questa fase di stallo della critica nei confronti del cinema di Lubitsch, è il grande interesse che ancora oggi suscita la riedizione di una vecchia monografia che nel 1977 Guido Fink pubblicò per la collana "Il Castoro Cinema" della Nuova Italia. A vent'anni di distanza dalla prima edizione, e senza bisogno di sostanziali modifiche, questo piccolo testo manifesta ancora oggi l'acume e l'intelligenza inerpretativa di uno studioso che per primo seppe dimostrare l'importanza del cinema lubitschiano e la necessità di una sua rivalutazione. Non per altro le numerose chiavi interpretative che l'autore seppe illustrare e argomentare con estrema finezza si difendono ancora bene nei confronti di riletture più recenti: pensiamo alla riconsiderazione delle prime comiche lubitschiane che i "Cahiers" definivano "autocaricature laide e ributtanti, cariche di antisemitismo" e che Fink legge nei termini di una "tendenza masochistica" dello "humour" ebraico all'"ostentazione di tutti i difetti e i cliché di cui va a caccia il maligno pregiudizio delle maggioranze", poiché "solo la maschera (...) voluta da "altri" permette di essere 'accettati'". Oppure prendiamo la stroncatura di Scott Eyman nei confronti di "Angel", di cui Fink mostra invece di apprezzare la "bellezza algida" e la "geometria rigorosa e allo stesso tempo reticente"; o ancora la riscoperta di un capolavoro come "Broken Lullaby", "film a tesi alla Stanley Kramer" secondo Herman G. Weinberg, "uno dei peggiori film di Lubitsch" secondo Eyman, "metaforico ritorno di Lubitsch verso la "Heimat" abbandonata, verso il suo 'doppio' tedesco o la parte di sé che ha ucciso" secondo Fink.
Se poi fra tanto acume ci imbattiamo qua e là in qualche inesattezza, a cui l'autore stesso mostra di essersi affezionato (penso alla leggenda di un secondo finale di "Heaven Can Wait" censurato in Italia dalla "miope censura dell'era scelbiana", e che fece sognare tanti cinefili e penare altrettanti studiosi alla ricerca di una copia integrale della pellicola), il piacere che ne risulta non può che contribuire a rendere la lettura più gradevole e affascinante.
Per questo Fink può permettersi di aggiornare il saggio con una semplice prefazione, così da contestualizzare il testo, giustificare le imprecisioni dovute all'allora difficile reperimento di pellicole, e spiegare come un Castoro su Lubitsch possa "aspirare a una sua perenne giovinezza" anche se "un po' artificiosa, come quella di un "viveur" stagionato, di un principe studente ormai fuori corso, o di una vedova ancora allegra ma incamminata ormai verso la terza età".

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