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Ernesto De Martino. Dalla crisi della presenza alla comunità umana - Placido Cherchi,Maria Cherchi - copertina
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Ernesto De Martino. Dalla crisi della presenza alla comunità umana - Placido Cherchi,Maria Cherchi - copertina

Dettagli

1987
1 gennaio 1987
416 p.
9788820716301

Voce della critica


recensione di Clemente, P., L'Indice 1989, n. 2

Nel linguaggio dell'Artusi si direbbe che non è un libro per "stomaci deboli". 400 pagine di una scrittura intensa, con un linguaggio e una terminologia legati alla ricerca filosofica e in particolare al pensiero tedesco del '900, che concedono poco al lettore "medio". L'autore di cui il libro tratta è Ernesto De Martino, l'argomento è la ricostruzione di una riflessione teorica già ampiamente "rimpallata" tra vari specialismi con il rischio forte del misconoscimento di essa nel quadro della cultura italiana postbellica, o della sua mutilazione e smembramento.
Il volume di Placido e Maria Cherchi, che fa parte della collana "Anthropos" diretta da Vittorio Lanternari, cerca di interrompere i rinvii del De Martino teorico da uno all'altro versante specialistico, ricostruendo un itinerario filosofico e una gamma di problemi epistemologici, storici, antropologici e critici di consistenza assai difficilmente riducibile. I Cherchi, e in particolare Placido che è autore di numerosi saggi su De Martino negli ultimi cinque anni (in gran parte reimmessi nel più sistematico discorso del volume) cercano con efficace tenacia (il libro è entrato in lavorazione quasi dieci anni fa) di rinvigorire un filo rosso di teoria che a sprazzi, con effetto artesiano, è riapparso nella saggistica italiana lungo gli ultimi trenta anni, con i nomi di S.Solari, C. Cases, C. Ginzburg, oltre che,ma più parzialmente, nella saggistica più specificamente antropologica (C. Gallini soprattutto, ma anche V. Lanterri, L. Lombardi Satriani, P.G. Solinas il sottoscritto e altri ancora) e in un importante lavoro di Galasso. Il filo è quello del rapporto tra De Martino e la cultura europea della crisi, la fenomenologia, l'esistenzialismo, l'hegelismo e la scuola di Francoforte. Èinsomma il filo meno coltivato, e più occasionalmente (se si esclude la "Introduzione" di C. Gallini a "La fine del mondo") dagli antropologi nella ricca letteratura sullo studioso napoletano, e colto da pochi studiosi, come quelli sopra segnalati. Infatti nella ripresa di attenzione verso De Martino che caratterizzò la fine degli anni '70, questo tema - o meglio la fisionomia intellettuale più complessa dell'autore - restò ai margini, e De Martino fin per essere riletto dai soli antropologi, me compreso, in modo parziale: recuperando aspetti di una antropologia umanisticamente e politicamente militante o singoli temi analitici da usare nella ricerca (la "crisi della presenza"), fino a configurare una chiave di lettura "lacrimante" sulla miseria delle plebi meridionali.
Ha senso dunque ritessere la tela appena avviata, e a sprazzi, nei trent'anni dalla morte di De Martino nel 1965 e già dal "Mondo magico" nel 1948, per restituire statura e complessità teorica a un autore che l'intelligenza italiana ha mostrato di non considerare rilevante o ha preferito evitare o ha considerato datato? Nella risposta a questa domanda si gioca sia il ruolo di De Martino nella cultura postbellica, sia il rilievo del libro di P. e M. Cherchi.
Il libro si propone di sollecitare la ricollocazione di De Martino nella storia della cultura italiana dagli anni '30 ai '60, tra idealismo e nuove aperture europee; e direi che sollecita una posizione di rilievo, il riconoscimento di una capacità di lettura dell'arcaico e del moderno ancora feconda, e comunque una sottrazione a una sorta di congiura del silenzio o convergenza di pigrizie nella quale ebbe un rilievo particolare l'ostilità del marxismo ufficiale (sarebbe un'occasione per richiamare in causa Togliatti, peraltro già abbastanza "disturbato" in questo periodo). Implicitamente l'intento è forse di sottrarre De Martino ad un campo di appartenenze affettive troppo limitato, costituito dagli antropologi di "scuola italiana" e da intellettuali in qualche modo "eterodossi". Spero che qualcuno ricordi "Quaderni piacentini" (1965, n. 23-24) e la discussione sulla morte di De Martino, ancora emozionante e significativa a leggerla oggi, dialogata tra Cesare Cases e Franco Fortini. Il libro dei Cherchi chiede in fondo "onorata sepoltura" e con essa, nei termini del De Martino di "Morte e pianto rituale", una "buona memoria", che possa, se si vuole, essere attiva nel presente e consenta, come De Martino disse di Croce, di "continuare a pensare" alla sua opera in modo produttivo, senza miti n‚ occultamenti.
La linea di condotta con cui viene ricostruito l'impianto teorico-analitico dello studioso napoletano mi convince. Non nego discontinuità nell'opera o momenti di eccessivo didascalismo. Ma quel che importa è che vengono ripresi con metodo e su ampio spettro i nessi centrali, per lo più frammentariamente segnalati o non ricordati: così il rilievo di Heidegger all'interno di un impianto storicistico che non rinvia solo a Croce ma anche alla ripresa europea di Hegel. Trovo molto convincente anche l'idea della "metis" cioè dell'uso tattico e protettivo che De Martino avrebbe fatto della tradizione idealistica, per coltivare dietro al guscio difensivo un originale incontro con esistenzialismo e fenomenologia. I Cherchi sono costretti, per l'esiguità della letteratura filosofica su De Martino, ad affrontare un impegno di sistematicità quasi solitario e si sente lo sforzo. Ma anche avere sottratto l'autore a un rapporto pendolare tra idealismo crociano e marxismo, con un sistema di riferimenti non soltanto italiano, è un passo avanti non da poco. Viene così consentita oltretutto una ripresa storico-critica anche di tipo antropologico. In questo senso l'ampliamento della rilettura dell'autore napoletano è anche uno stimolo a riaprire il nesso tra antropologia e problematiche filosofico-epistemologiche.
Il volume dei Cherchi si divide in tre parti. La prima affronta sistematicamente il rapporto De Martino-Heidegger, a partire soprattutto dal più discusso testo demartiniano. "Il mondo magico" (1948); la seconda allarga l'orizzonte implicando crocianesimo ed esistenzialismo, e configurando la tesi della "metis" demartiniana. Si conclude recuperando alcuni temi assai attuali, in particolare quelli dell'"ethos del trascendimento" e dell'umanità come soggetto di fronte all'attualità della catastrofe con la Scuola di Francoforte. Si segnala infine una ampia bibliografia. Da notare sia un intento di sistematico approccio filosofico all'autore, sia quello di evidenziare alcuni aspetti della sua attualità nel dibattito attuale in cui il volume assume andamento saggistico con approcci di notevole chiarezza (interessanti particolarmente il capitolo sull'ethos del trascendimento e quello sulla scuola di Francoforte). Talora, Placido Cherchi (sono sue queste parti) riecheggia quasi mimeticamente lo stile e il lessico dell'autore con pregnanza di scrittura notevole e una forte identificazione critica.
Il concetto guida del libro è quello demartiniano di "crisi della presenza", ma sottratto alla ovvietà delle applicazioni antropologiche locali, e restituito a un laboratorio teorico ed epistemologico i cui riferimenti stanno nel pensiero degli anni '30 e nella storia dell'Europa prebellica (il nazismo, il fascismo), pensati ancora a lungo, attraverso la guerra e oltre. È un tema ancora assai vivace, sul quale - negli studi - non ci sono precedenti di riflessione sistematica confrontabili a questa proposta. Ed è anche un concetto che mi lascia sospettoso, per l'eccesso di micro-applicazioni che ne sono state fatte in area etnoantropologica e finanche di psicologia individuale. Esso dispiega, a mio avviso, tutto il suo spessore, e guida la lettura di pagine intensissime de "La fine del mondo", soprattutto o solo se la crisi della presenza si legge a partire dalla presenza della crisi, ed è quindi un concetto di amplissima scala, pertinente piuttosto al coesistere della modernità con la minaccia dell'apocalisse (guerra, disastro ecologico, minaccia atomica) che non alle pratiche locali della cultura tradizionale. Anche in questo senso il volume dei Cherchi costruisce importanti punti di riferimento concettuale, e credo che non riscriverei oggi delle pagine scritte qualche anno fa e piene di interrogativi e critiche sulla valenza antropologica, e sull'uso demartiniano e postdemartiniano, di alcuni concetti. Se resto dell'opinione che l'antropologo, per il suo mestiere in grande misura empirico, può dialogare liberamente con De Martino, per trarne o rifiutare possibilità di aiuto interpretativo, sono però convinto che questo autore va letto a tutto tondo, come uno dei grandi e originali intellettuali italiani del nostro secolo e che sia difficilmente circoscrivibile ad una antropologia ch'egli vide come spazio da attraversare per verificare temi assai più ampi, dai quali la ricerca sociale sembra essersi allontanata. Per questo alcuni toni critici delle mie considerazioni recensorie sono rivolti all'intellettualità filosofico-letteraria e storica, quelle ancora oggi centrali nella nostra cultura e capaci di tornare a riflettere sulla statura di questo autore. Gli antropologi ne hanno scritto abbastanza, il bilancio a tutt'oggi è sostanzialmente in pareggio. I debiti verso De Martino sono soprattutto altrove. Anche se potrà sembrare a molti, come già è apparso, polemicamente credo, a Placido Cherchi, che si tratti di un discorso "inattuale". Ma se pure fosse così resterebbe da aggiungere che ormai, per molti aspetti, in Italia e altrove, si considera De Martino come un "classico": uso di concetti, frammenti antologici, luoghi di particolare pregnanza riecheggiano qua e là. Anche se "inattuale", un "classico" deve essere riconosciuto come tale. Questo passaggio è mancato, e ci auguriamo che il lavoro dei Cherchi riapra almeno questa possibilità di riconoscimento.

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