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«Era così bello parlare». Conversazioni radiofoniche con Giorgio Caproni - copertina
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Descrizione


Nel gennaio del 1988 Giorgio Caproni è stato ospite, per quattro domeniche consecutive, della trasmissione di Radio 3 "Antologia". Vengono qui riprodotte le lunghe conversazioni tra il poeta e i conduttori Michele Gulinucci e Guido Barbieri. Nel corso delle quattro puntate intervengono alcuni illustri ospiti: Ferruccio De Ceresa, Mario Picchi, Giulio Cattaneo, Antonio Debenedetti, Attilio Bertolucci, Giorgio Barbieri Squarotti e Pier Vincenzo Mengaldo.
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Dettagli

2004
25 novembre 2004
281 p., Brossura
9788870185119

Voce della critica

Ha fatto bene Luigi Surdich, nel finale della sua bella e documentata introduzione, a ricordare la voce di Caproni, con i versi del poeta "Ahi mia voce, mia voce. / Occlusa. Rinserrata", quella particolare dizione, strascicata e tenera, con le parole smozzicate, un po' quasi forzate nell'emissione, un po' come gettate. Una voce che la diceva lunga sul tratto del suo possessore, così poco incline all'eloquenza e alla conversazione brillante, quanto solitario "custode del linguaggio".

Ora questo libro, pur non restituendoci quel suggestivo timbro, ci registra per intero quattro trasmissioni radiofoniche, che Caproni effettuò nel gennaio 1988 con Michele Gulinucci, per Radio 3, con la collaborazione del musicologo Guido Barbieri, il quale scelse i pezzi musicali da intervallare alla conversazione. Questa fu anche arricchita da una ricca serie di letture di poesie di Caproni (che ora nel libro costituiscono una ricca antologia, oltretutto spesso corredata da commenti d'autore) e da interventi di critici e amici, come Giulio Cattaneo, Antonio Debenedetti, Pier Vincenzo Mengaldo e Giorgio Barberi Squarotti.

Il libro si compone di quattro capitoli (uno per conversazione) e hanno per tema Livorno, Genova, la guerra e la caccia, ovvero l'allegoria al centro della ricerca degli ultimi libri. La trascrizione è fedele con sospensioni e interruzioni, ma consente una lettura assai agevole, in cui Caproni tocca aspetti della sua biografia, rapporti con altri poeti, riflessioni di poetica e di vita in generale. Il tutto è detto "senza ufficialità", come lo stesso Caproni dice congedandosi, soddisfatto di essersi trovato a proprio agio "come all'osteria" (luogo quanto mai emblematico anche della sua poesia).

Analogo agio lo troverà anche il lettore, che può gustare delle vere chicche, come una lettera giovanile al poeta Carlo Betocchi, del '37, e prose caproniane del tutto inedite, come un puerilium addirittura del '22 e alcune pagine del romanzo La dimissione che Caproni cominciò a scrivere nel '37 e non terminò mai (il frammento qui riprodotto fu registrato alla radio nel '54). Tra l'altro una delle cose più interessanti e nuove che emerge da queste conversazioni è l'insistenza di Caproni a dirsi scrittore in versi più che poeta. Dichiara espressamente il proprio giovanile desiderio di fare il narratore, precisa che "i racconti finivano per diventar poesie" e rileva la "vena narrativa (...) visibile quasi in tutte le mie poesie", in piena controtendenza quando esordì negli anni trenta, fra poesia pura e prosa d'arte. Di poeta narrativo c'era naturalmente Pavese, ma l'alimento narrativo del verso caproniano ha tutt'altro passo. E qui si può fare un piccolo punto sulla particolare "ricetta" poetica di Caproni, operante fin dalle origini e in cui dobbiamo conteggiare, sulla base di quanto Caproni dice, oltre la vena narrativa, il Carducci "macchiaiolo" risillabato come terapia dopo la giovanile infatuazione surrealista (di eco spagnola, più che francese), ma anche un finora del tutto non rilevato sostrato latino. In particolare Caproni tiene a dire a memoria l'attacco del De bello gallico ed esaltare la nitidezza razionale della prosa di Cesare, confessandosi debitore con lui anche di un titolo (Prima luce) da Come un'allegoria (1936), il libro d'esordio.

Da questo singolare cocktail scaturisce, fin dagli anni trenta, una poesia originalissima e appartata dalla linea dominante, che punta sul lirico spinto, nel versante ungarettiano ed ermetico. Non a caso Caproni dichiara qui esplicitamente il suo non amore per Mallarmé: "E questo era grave per quei tempi", e aggiunge: "In fondo, di fauni, delle ninfe, non me ne importa nulla, c'è poco da dire, m'importan di più le dame in ciabatte. E non è Neorealismo, intendiamoci". Giusta la precisazione dell'autore, ma il lettore avvertito poteva schivarla già dalla precedente espressione di "dame in ciabatte" (e non donne): siamo nel pieno sortilegio della grandissima poesia di Caproni, che gioca di sottile contrappunto ed è refrattaria ad alcun mimetismo: le donne in ciabatte sono neorealiste, le dame sono delle geniali invenzioni, con quel pizzico di surrealismo che è sempre rimasto in Caproni, ma arricchito da un gusto del paradosso gestito nel deviare di poco il gioco di significato e significante tra lingua comune e scavo nella tradizione letteraria.

A ben vedere, se c'è un poeta nel Novecento che ha saputo far faville dal cozzo di aulico e prosaico (la nota formula montaliana) questo è proprio Caproni con la sua ricerca di una dissonanza nel "sistema tonale" della lingua, come qui dichiara, in un ritornante richiamo a Stravinskij, e quindi fuori di una gestione troppo soggettiva del linguaggio, come furono tanto la stagione ermetica quanto quella sperimentale. L'aver risillabato Carducci lo ha sempre tenuto fermo a un procedere nitido del linguaggio, vaccinandolo dalla nebulosa dannunziana che, come sappiamo, ha condizionato quasi tutti, da Montale a Luzi e oltre. E quella lezione di nitidezza in lui ha il sapore dell'aspro e il colore del verde, un che di squillante e agro, come appunto la sua rima "elementare", rispetto tanto ai poeti di melodia o politonali, quanto ai dodecafonici.

Insistere così tanto sulla musica è un portato della vocazione primaria di Caproni, violinista e musico, che si cimentava di composizione e provava prima sui testi degli autori più musicali della traduzione, da Poliziano a Tasso, poi su proprie parole; così nacquero - ci dice - i primi versi a servizio della musica. Poi, insoddisfatto della propria arte musicale, rimase solo il "paroliere". Il nesso poesia e musica è ben noto agli studiosi e ai lettori di Caproni, ma va rilevato in questo cimento originario per spiegare il senso di "sfiducia radicale nel potere della parola" che Caproni dichiara contro "il culto della parola", che da D'Annunzio arriva fino ai Novissimi, salvo poche eccezioni. Qui entra in gioco il suo "nominalismo", ma anche quel forte impegno di custode del linguaggio, giacché la sfiducia di Caproni non è la rinuncia del vecchio Montale, ma chiama sempre quasi a un etica del "paroliere", nella responsabilità che avverte per i lettori e per la poesia.

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