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Epistolario - Bertrando Spaventa - copertina
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Dettagli

1 gennaio 1995
348 p.
9788824039116

Voce della critica


recensione di Savorelli, A., L'Indice 1998, n. 6

Non inganni la data di stampa (1995): a seguito di traversie editoriali il primo tomo dell'"Epistolario" di Bertrando Spaventa (1847-1860) è disponibile per gli studiosi solo da pochi mesi. Ancora una quindicina d'anni fa questo libro sarebbe stato un evento: oggi, pur nel concomitante riavvio della stampa dell'epistolario di De Sanctis, a lungo interrotta, e dei cospicui apporti a quello di Labriola, pare destinato a cadere in una certa indifferenza. È perfino bizzarro che solo ora, calato l'interesse degli storici per l'hegelismo meridionale, intenso tra il dopoguerra e gli anni settanta, si possa contare su uno strumento filologico di questo tipo: che aggiunge centinaia di lettere a quelle già note, e, soprattutto, restituisce i testi, editi solo per frammenti da Croce e Gentile, nella versione integrale
Ma quella degli hegeliani italiani, nei dettagli come nei grandi appuntamenti, è anche una storia di cronici ritardi. Pare superfluo rammentare che l'attuale sordina posta su quel movimento di idee non dipende da disattenzione degli interpreti, ma dai mutamenti politici e culturali degli ultimi anni: e, se si vuole, è un contrappasso dell'eccessiva enfasi del passato. Già a Croce erano sospetti gli hegeliani che - diceva - s'erano accampati in Italia come i Longobardi, solitari adoratori di Wotan: e Spaventa, in particolare, gli era sempre parso un "teologo". Viceversa, dopo che Gentile lo aveva promosso, accentuandone certi aspetti dell'interpretazione di Hegel, ad anello di una "aurea catena" del pensiero italiano destinata a culminare nei fasti dell'attualismo, Spaventa rischiò, negli anni a cavallo tra le due guerre, di divenire un'ingombrante icona. Fu poi merito dello storicismo marxista, restituirne un'immagine più adeguata e meno speculativamente distorta: anche se talora l'esigenza di contrapporsi all'idealismo pesò nella confezione di una troppo manierata genealogia della cultura critica e democratica (la formulazione militante di una linea Spaventa-De Sanctis-Labriola-Gramsci risale a Togliatti). Sì che non è facile dire oggi se le discussioni e l'imponente bibliografia accumulatasi fino a pochi anni fa sul personaggio, siano frutto - come si diceva un tempo - di datate "operazioni culturali", o se invece le alterne fortune e le interpretazioni divergenti non ne attestino malgrado tutto una perdurante vitalità storica.
Sulla vicenda umana, culturale, politica e speculativa degli hegeliani, l'epistolario spaventiano, e in particolare questo primo volume che contiene le lettere scritte dall'esilio torinese nel "decennio di preparazione", getta la luce aurorale tipica degli esordi: c'è il palinsesto di un'importazione di Hegel, che in seguito si sarebbe irrigidita in qualche astrattezza e in letture riduttive, ma che aveva un senso preciso, proprio nel suo ritardo storico. "Destra" e "sinistra" hegeliane s'erano già divise, e la vitalità dell'hegelismo s'incanalava per rivoli diversi da quelli di una ripetizione di scuola, sullo sfondo di una delle prime grandi "crisi delle ideologie", quando, dopo il '48, ci si affrettò a porre in mora una metafisica colpevole di pericolose e sovversive filosofie della storia. Spaventa lo sapeva bene: a un corrispondente in Germania nel 1859, raccomandava di fargli sapere se "Hegel respira ancora, o se è già morto e seppellito". Anch'egli, nei primi anni a Torino, lo aveva letto con le lenti delle ideologie quarantottesche: e ironizzando su se stesso "speculatore speculativo", s'era diviso tra Hegel e Proudhon, tra il sapere assoluto e le ansie di "italianità, di fratellanza universale, de' millenarii della fine del mondo, cioè del comunismo mondiale".
Ma il progetto di "rendere intelligibile" Hegel "senza superficialità, renderlo popolare, non volgare", come scriveva a Villari, proseguì con piglio sicuro, e costituì un acquisto permanente della nostra cultura. La fine delle aspettative rivoluzionarie coincise con l'uso di un altro Hegel: un'interpretazione laica e liberale della filosofia del diritto, funzionale alla "rivoluzione" italiana, tutta in polemica con l'egemonia politica e intellettuale della Chiesa, e l'accento posto sulla "Fenomenologia", una storia "eterna" della coscienza che consentiva tuttavia a Spaventa di rileggere tutta la storia della "coscienza nazionale". Ne nacque la teoria della "circolazione" del pensiero italiano nel pensiero europeo, la cui gestazione, nel progressivo affinarsi di un metodo storiografico originale, l'epistolario ripercorre giorno per giorno. Essa oscillò a lungo tra felici intuizioni storiografiche (la riscoperta di Bruno e del Rinascimento, di un "altro" Vico, ecc.) e un gioco di formule sclerotizzate (Bruno/Spinoza, Vico/Kant, Gioberti/Hegel ...), che assumerà toni caricaturali durante l'egemonia attualistica. Eppure quelle pagine restano, con la "Storia "di De Sanctis, un classico.
In un fortunato pamphlet di qualche anno fa Carlo Augusto Viano aveva enumerato caratteri o vizi ereditari della filosofia italiana: eclettismo, idea del primato, gioco di precorrimenti e presunti superamenti, gusto delle mediazioni verbalistiche. Ebbene, pochi davvero a Spaventa se ne possono attribuire: la sua "circolazione" non era un nuovo primato, ma, al contrario, un fare i conti con la nostra arretratezza culturale, che, come ha scritto di recente Aldo Schiavone in "Italiani senza Italia "(Einaudi 1997; cfr. "L'Indice, 1998, n. 5), aveva toccato il fondo nella prima metà del secolo, in un meschino isolamento. Come gli scriveva il fratello Silvio, Spaventa aveva compreso che "gli italiani non intenderanno mai cosa sia la filosofia moderna se non ricavandola dagli stessi loro filosofi". Da qui due idee a loro modo eversive, un riandare al momento cruciale della crisi italiana, il Rinascimento, finalmente senza remore e riserve ortodosse, disfacendosi dell'illusione della perenne "filosofia italica", e un attingere senza pregiudizi al pensiero europeo: "Saremo sempre de' grandi coglioni, finché ci ostineremo a non volerne sapere di cotesta filosofia tedesca nebbiosa e selvaggia". Questo epistolario racconta ancora uno degli episodi intrinsecamente meno provinciali della nostra cultura, nel momento in cui si sforzava di emergere, con una sua propria identità, da invecchiate mitologie.

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