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Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea - copertina
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Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea - copertina

Descrizione


L'Italia si caratterizza sin dall'Unità per un livello di contrapposizione politica singolarmente alto. Una contrapposizione che si nutre di divisioni non tanto sociali, religiose o linguistiche, quanto soprattutto di natura spiccatamente ideologica, se non antropologica. L'intera vicenda storica del paese rivela, infatti, una singolare propensione alla divisività, che si manifesta in una lunga serie di coppie di opposti: nord/sud, laici/cattolici, interventisti/neutralisti, fascisti/antifascisti, comunisti/anticomunisti. Tale divisività rimanda al cruciale problema della legittimazione e della delegittimazione all'interno del sistema politico e alimenta uno scontro che si configura spesso come una vera e propria guerra tra "due nazioni".
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Dettagli

2003
21 novembre 2003
Libro universitario
365 p., Brossura
9788815095558

Voce della critica

Frutto di un convegno organizzato dalla Fondazione Agnelli nell'ottobre 2001, il volume propone in veste attualizzante una questione che ha segnato e continua a segnare il dibattito politico in molti paesi. Quello delle "due nazioni", o dei "due popoli", è un tema classico, che ritroviamo in Francia, come in Gran Bretagna, o negli Stati Uniti, e che in Italia, nei decenni successivi all'Unità, è stato al centro della riflessione di intellettuali e uomini politici, colpiti dalla frammentazione e dai profondi squilibri del paese, ai limiti dell'incomunicabilità. Il sovrano di Angelo Camillo De Meis, che forse poteva essere qui ricordato, è nel 1868 una delle espressioni più precoci e più note della consapevolezza di una frattura profonda e dell'urgenza di costruire un'omogeneità nazionale.

Nel volume si pone tuttavia l'accento quasi unicamente sugli aspetti ideologici di quella che viene definita "divisività", cioè sulla delegittimazione di cui si riscontra una particolare e anomala frequenza nella storia italiana e che Luciano Cafagna definisce non un semplice dissenso, ma "un atteggiamento di contestazione della legittimità di un potere". In un paese in cui non sono possibili alternanze bipolari, afferma Cafagna, il centrismo, come fu realizzato dal "connubio" di Cavour, è "decisamente preferibile alle lacerazioni frontali e distruttive, oppure a forme di ingovernabilità che possono paralizzare prima e portare poi al cesarismo o alla dittatura".

Secondo i curatori l'Italia ha vissuto una contrapposizione che "si nutre non tanto di divisioni sociali, religiose o linguistiche particolarmente aspre e incomponibili quanto soprattutto di fattori divisivi di spiccatissima natura politico-ideologica". Non sarei però così sicuro nel negare le divisioni sociali e linguistiche, nell'escludere queste come concause della "divisività" politica, e nel confondere quest'ultima con la pura contrapposizione ideologica.

Non tutti gli scritti qui raccolti corrispondono tuttavia a questa interpretazione. Paolo Macry ripercorre la rappresentazione stereotipata del Mezzogiorno, Giorgio Rumi gli anatemi contro lo Stato liberale del quotidiano lombardo "Osservatore cattolico" fra il 1878 e il 1903, Massimo Salvadori espone - in gran parte sulla traccia di Walter Maturi - le tappe principali attraverso le quali una storiografia particolarmente politicizzata come quella italiana ha dato voce al dibattito sull'ordine sociale e politico del paese con formule di legittimazione o di delegittimazione. Ma a questo piano del discorso, attento all'analisi concettuale e narrativa della "divisività" storicamente individuata, se ne sovrappone un altro: quello della denuncia di correnti storiografiche e/o di movimenti politici ritenuti responsabili del male della "divisività", anche quando sono espressione di critiche "normali" all'ordine esistente.

Una sovrapposizione che produce confusione. Evidente, senza bisogno di essere dichiarato, è l'obiettivo politico che si propongono i curatori, cioè il superamento delle esclusioni reciproche che avrebbero bloccato il sistema politico italiano fino al tentativo di creare un sistema bipolare ispirato all'alternanza. Su questo tema si dibatte in Italia da almeno un decennio, ed è un tema, appunto, squisitamente politico. Piegare a esso la storia e la storiografia non è una novità, ma non per questo è meno improprio. Un fatto è prendere atto di posizioni che si presentano storicamente differenti, contrapposte e delegittimanti, altro è criticarne l'ispirazione quasi a volerle "delegittimare".

Alcuni dei dieci storici qui coinvolti vestono contemporaneamente i panni del politologo per raccomandare, come si legge nell'introduzione, il superamento dei contrasti e richiamare "la responsabilità della storiografia, che in un discorso 'costruttivo' sul passato dovrebbe manifestare una disponibilità a riconoscere gli 'eccessi' della propria parte e contribuire ad individuare, accanto ai momenti storici più tipici della divisività italiana, anche i momenti di riconciliazione". L'impronta pedagogica di questo invito ha poco a che vedere con l'autonomia e la soggettività della ricerca storiografica; suggerisce piuttosto, nel quadro del ricorrente appello alla "pacificazione" nazionale, una profonda "revisione" della vicenda storica italiana, quella stessa auspicata nel dicembre 2003 dal presidente del Senato. In questo senso il volume riprende per alcuni aspetti Miti e storia dell'Italia unita (edito sempre dal Mulino nel 1999), in cui Belardelli, Cafagna, Galli della Loggia e Sabbatucci avevano opposto la loro "verità" storica ai "miti" che sarebbero stati costruiti dalla storiografia comunista e azionista.

Comunisti e azionisti sono anche in questo caso i principali obiettivi polemici di alcuni autori. In particolare Galli della Loggia, focalizzando il suo saggio sull'uso strumentale del pericolo fascista nell'Italia repubblicana, dichiara l'esistenza di profonde differenze tra la legittimazione basata sull'antifascismo e quella fondata sull'anticomunismo: a suo parere la prima - rappresentata dai comunisti, dagli azionisti e più in generale dai gobettiani - delegittima l'avversario agitando lo spauracchio del fascismo, come dimostrerebbe il richiamo continuo a una Costituzione definita antifascista piuttosto che democratica, e mirando a mutare le strutture sociali concede ampio spazio negli anni settanta alle forze extraparlamentari, anticapitalistiche, ma anche antidemocratiche; mentre la seconda non delegittima il Pci e pone un saldo argine a destra, pur catturandone molti voti.

A questa audace linea interpretative, non priva di ipotesi controfattuali (cosa sarebbe successo se...), si allinea Raffaele Romanelli, per il quale nella storiografia di sinistra l'antifascismo è solo un pregiudizio che "precede l'analisi". Più cauti sono Di Nucci, che sviluppa - in un saggio i cui riferimenti storiografici sono quasi unicamente i lavori di Renzo De Felice e di Emilio Gentile - un'ampia disamina del processo attraverso il quale il fascismo escluse dalla sfera della patria gli avversari politici e gli ebrei in quanto "antinazionali" - salvo a concludere, con Galli della Loggia, che la patria muore l'8 settembre -, e Roberto Pertici, che ripercorre le varie fasi dell'anticomunismo italiano dal 1936, dando il dovuto spazio alla Chiesa cattolica e illustrando i motivi "reali" che spiegano l'anticomunismo, il cui carattere ideologico gli appare tuttavia messo in crisi dai fatti del luglio 1960.

La risposta di Giovanni Belardelli sui responsabili dell'opera di delegittimazione nel Risorgimento è invece netta. Egli sembra mettere sotto accusa la critica di Mazzini e dei repubblicani all'esito sabaudo del Risorgimento, quasi che fosse e dovesse essere razionale, e quindi accettabile, solo ciò che è reale, e quindi chi detiene il potere. Significativa la sua tirata d'orecchi all'intellettuale di matrice gobettiana, che pensa a un'"altra Italia", chiuso nella "rampogna costante dei difetti dei propri connazionali, nell'esibita sordità, o nel malcelato disprezzo, di fronte agli orientamenti della gente comune": curiosa conclusione, dove la "gente" prende il posto della monarchia come vittima di una intellettualità che per definizione è astratta ed è minoranza aristocratica. Così Giovanni Sabbatucci, dopo un più equilibrato esame della prima guerra mondiale come complesso e ambiguo "fattore di divisione", addebita la "responsabilità primaria" della crisi del dopoguerra al Psi antibellicista, e a Plotone d'esecuzione, pubblicato nel 1968 da Enzo Forcella e Alberto Monticone, quella di aver incrinato l'equilibrio della memoria di un evento che, per colpa della cultura di sinistra, è ancora difficile inserire in "una storia condivisa e pacificata".

Fra i due piani del discorso nei quali si articola il volume, cui ho accennato prima, quello polemico e attualizzante finisce naturalmente col risultare caratterizzante, producendo evidenti e inevitabili forzature: allo scollamento tra le ideologie e i processi reali si lega una lettura a senso unico dei soggetti delegittimanti individuati nelle opposizioni, oltre all'asserzione netta dell'esistenza di "due nazioni" senza l'interrogativo proprio del convegno torinese ("Due nazioni?") e nonostante la moltiplicazione, indicata in alcuni saggi, delle entità politiche che si confrontano e si contrappongono contemporaneamente.

Lo stesso invito alla riconciliazione rivolto agli storici, ove avesse senso, è contraddetto dal processo che i curatori e alcuni autori intentano alla storiografia di impronta gobettiana, azionista, comunista, e in generale antifascista, ritenuta di per sé mossa da pregiudizi, e che viene quindi delegittimata.

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