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Dettagli

2
1998
1 agosto 1998
221 p.
9788882700041

Voce della critica


recensione di Botti, A., L'Indice 1998, n. 8

Lasciando per ora da parte la breve e discussa introduzione, il libretto confezionato da Sergio Romano si apre con la trascrizione, dovuta a Nino Isaia, dei ricordi di Giuliano Bonfante, intellettuale socialista, in Spagna dal 1933 per compiere studi filologici, che allo scoppio della guerra civile combatté come volontario nell'esercito repubblicano fino a quando il timore per la crescente egemonia comunista non lo indusse, nel 1937, ad abbandonare la lotta.
Il secondo scritto è di Edgardo Sogno, chiamato a dire la sua dopo aver avuto da Romano il testo di Bonfante. Sogno distingue tra una prima parte, antifascista, e una seconda, anticomunista, della guerra civile, non accennando minimamente ai motivi del cambiamento (il mancato appoggio di Francia e Inghilterra alla Repubblica, mentre gli aiuti dell'Urss consentivano ai comunisti spagnoli di imporre la propria egemonia nel campo repubblicano), e tace sull'esistenza di un terzo periodo, quello aperto dal golpe del colonnello Casado che, estromessi i comunisti, cercò inutilmente di ottenere dal nemico la resa condizionata. Scrive delle "pugnalate alla schiena che i commissari di Stalin inflissero ai miliziani antifascisti, libertari, socialisti, anarchici, trotzkisti, della prima eroica difesa di Madrid nell'estate e nell'autunno del 1936", anticipando di vari mesi una condotta che ebbe a manifestarsi solo dopo il maggio del 1937. Afferma che "Franco, raccogliendo i caduti di entrambe le parti e scegliendo egli stesso la sua tomba nel "Valle de los Caidos" aveva dato un primo segnale di pacificazione", quando non ci sono caduti repubblicani nella tetra valle e non ci fu nessun gesto di pacificazione, ma di scherno, poiché i vinti furono costretti con il lavoro forzato a costruire il monumento al vincitore. Riprova che la "Conferenza episcopale spagnola vorrebbe chiedere perdono per l'appoggio dato dal clero cattolico alla causa nazionalista", ignorando che la richiesta di perdono è già stata formulata nella proposizione 34 scaturita dell'Assemblea congiunta di clero e vescovi nel 1971. Attribuisce a Franco "il capolavoro storico" di aver restaurato il regime democratico avviando la transizione e scrive che non sussistono motivi per negare "il debito postumo verso di lui non solo della monarchia, ma della libertà politica e della pacificazione sociale", che risultano grossolane falsificazioni dei fatti.
Se fin qui Sogno si muove sul registro declamatorio (delle proprie convinzioni) e recriminatorio (contro la cultura e la storiografia di sinistra) proprio del "pamphlet", che per i fatti inventati di sana pianta tracima sovente nella "fiction*, le pagine propriamente memorialistiche sono una storia veramente poco eroica. Leggendole si apprende che Sogno si arruolò per sfuggire all'autoritarismo materno; che i primi assalti li realizzò ai casini di Siviglia e Valladolid; che non partecipò alla battaglia dell'Ebro perché un intervento, ancora della madre, lo fece rimanere nelle retrovie, dove comunque trovò modo di farsi notare. Una prima volta abbandonando il posto che gli era stato assegnato (per il casino? no, questa volta per visitare un castello) e per essersi fatto infliggere venti giorni di arresti di rigore; una seconda volta per l'inchiesta che condusse su un omicidio perpetrato nell'accampamento (la vittima era il barboncino del veterinario) e per la pena inflitta al colpevole: "dieci robuste scudisciate in faccia, di quelle che lasciano il segno per un pezzo". Se questa è la guerra civile di Sogno, non stupisce la sostanziale differenza, di intensità nel coinvolgimento morale, politico ed emotivo, che lo stesso Sogno riconosce "a tutto vantaggio di quei combattenti volontari spagnoli e stranieri della prima ora, della prima battaglia di Madrid, cui Bonfante appartiene".
Nella sua introduzione anche Romano sostiene che ci furono due guerre diverse senza spiegare le ragioni del trapasso. Scrive che le elezioni vinte dal Fronte popolare si celebrarono nel gennaio del 1936, quando l'avvenimento cadde il 16 febbraio. Ingenera ambiguamente il sospetto che fu a seguito dell'intervento sovietico che la guerra s'impennò sul piano della violenza, quando è risaputo che alcuni dei massacri più brutali (quelli anticlericali e la "matanza" di Badajoz) si ebbero nell'estate del 1936, ben prima dell'intervento sovietico. Descrive la guerra spagnola come prolungamento delle purghe staliniane, "il luogo in cui il comunismo sovietico continuava la sistematica liquidazione dei suoi nemici tradizionali: gli anarchici e i socialdemocratici", confondendo la politica del socialfascismo e quella dei fronti popolari inaugurata con la svolta del VII Congresso dell'Internazionale comunista. Afferma che se la Repubblica avesse vinto sarebbe stata la prima democrazia popolare d'Europa, dimenticando che fu la sollevazione militare a portare Stalin nella penisola iberica e anticipando di un decennio soluzioni che solo l'aggressione hitleriana all'Urss e la seconda guerra mondiale resero possibili nell'Est europeo.
Si chiede infine se il regime instaurato da Franco sia stato un regime fascista. Il suo discorso rischia però di risultare inutile. Vuol dire che la sinistra (non i comunisti) per ragioni politiche ha ecceduto nell'appioppare l'etichetta di fascista al regime spagnolo? Romano porta vasi a Samo. Vuol dire che non era questo l'orientamento fino al '42-'43? Sbaglia. Come prova adduce la "lungimiranza" di Franco nel non entrare in guerra a fianco dell'Asse. Sulla presunta lungimiranza, definita in quell'occasione "saggezza", si era già avuto un autorevolissimo scivolone (il discorso del presidente Scalfaro del 27 giugno 1996 in occasione della visita di Stato a Madrid). Che dire, se non ripetere quanto in quella occasione sostennero tutti gli storici (non franchisti) e gli ispanisti di ogni dove, e cioè: 1) che l'esercito spagnolo non era in condizione di entrare in conflitto; 2) che Franco in alcune occasioni tentò di scendere in campo, ma che la sua offerta venne respinta perché considerata troppo esosa dai tedeschi in materia di compensi; 3) che Franco fu dapprima "non belligerante" e solo in un secondo momento "neutrale", e che offrì aiuti preziosi all'Asse durante il conflitto; 4) che la neutralità come scelta fu uno dei risultati della riscrittura franchista della storia e uno dei cavalli di battaglia della propaganda del regime? Vuol dare un giudizio etico e dire che, da questo punto di vista il franchismo è stato meglio del fascismo? Sbaglia, perché almeno fino al 1945 fu più crudele, violento e coercitivo.
Più cauto di Sogno, che spaccia la scelta del successore (opera di Franco) con la transizione (risultato del compromesso tra l'opposizione antifranchista e i settori aperturisti del regime), Romano conclude osservando che nell'ultima fase della vita di Franco e dopo la sua morte si constatò "che la Spagna aveva conservato, a dispetto della dittatura, le energie e le virtù necessarie per il suo futuro politico ed economico". No, le virtù e le energie necessarie al futuro democratico del paese non vennero conservate dalla Spagna, ma tenute vive dall'opposizione antifranchista. Sul piano dello sviluppo capitalistico, invece, non si possono eludere i forti elementi di continuità esistenti tra gli anni della democrazia e quelli precedenti. Insomma: Romano fa confusione anche nell'inciso, "a dispetto della dittatura", più avverso al franchismo del suo breve testo.


AMBASCIATORE SENZA STORIA

La storiografia rivede i propri giudizi quando acquisisce nuove fonti e quando un diverso presente consente di gettare luce nuova sul passato, mutandone la percezione. In questo caso il giudizio può cambiare anche in assenza di documenti nuovi. A patto però di non ignorare quelli acquisiti, di misurarsi e superare le interpretazioni precedenti. Il libretto di Romano non offre alcunché di inedito sul piano documentario, né si cimenta con il lavoro degli storici. Dà solo per scontato che il crollo dell'Urss e la fine della minaccia sovietica consentano di reinterpretare la guerra spagnola. Quando deve citare, stralcia le righe che gli fanno comodo dalla biografia di Franco di Paul Preston o fa riferimento ("Corriere della Sera", 6 giugno 1998) ai libri di Ludovico Garruccio (Incisa da Camerana) e Frane Barbieri. Due libri del 1968, nessuno dei due storiografico, scritti prima della morte di Franco, dell'apertura degli archivi spagnoli, della pubblicazione di decine e decine di studi minuziosi sulla repressione franchista, sulla condotta spagnola durante la seconda guerra mondiale, sulle caratteristiche del primo franchismo, del regime di Franco in generale e sulla transizione democratica del 1975-78.
Romano non si misura con la storiografia sull'argomento, l'aggira.
Approfitta del clima e, con fiuto, piazza il colpo. C'è chi vuol mettere sullo stesso piano i partigiani e i combattenti della Repubblica di Salò? Allora perché non anche i volontari in difesa della Repubblica spagnola e quelli che combatterono con Franco? Storiograficamente, dietro Romano c'è la tesi di Nolte sul nazismo come reazione eccessiva al bolscevismo, trapiantata e adattata al caso spagnolo. Quella è una operazione storiografica discutibile, questa un'opinione priva di consistenza. Che, tra l'altro, finisce per mettere Romano nella bizzarra situazione di difensore degli anarchici e dei trotzkisti che la rivoluzione la volevano fare davvero e che proprio per questo vennero soppressi; in compagnia dell'Italia cattolica più retriva che nel regime spagnolo vide in alcune sue componenti il male minore, in altre un modello di Stato cattolico.
Sul regime franchista Romano è reiteratamente evasivo. Riconosce la sua brutalità, ma sembra ignorarne proporzioni e conseguenze. Così le sue disinvolte opinioni sul franchismo risultano ingiuriose e irrisorie per i milioni di spagnoli che si batterono a caro prezzo contro la dittatura, che subirono fucilazioni, prigionia, torture, lavori forzati, repressione costante, esilio ed epurazioni. È a questi che Romano dovrebbe spiegare che il franchismo reale fu comunque meglio di un regime comunista del tutto ipotetico. In particolare, dovrebbe poi andarlo a spiegare a catalani e baschi, a cominciare da Jordi Pujol, che nelle carceri franchiste c'è stato.
Alcuni hanno attribuito al libretto di Romano il merito di aver messo in discussione i miti costruiti dalla sinistra sulla guerra civile spagnola. È vero che su quest'ultima aleggiano da decenni ricostruzioni ideologiche evocative e militanti. Ma accanto al mito comunista, che fa della guerra civile solo una battaglia democratica antifascista, dimenticando le repressioni a sinistra e la progressiva egemonia stalinista, ve ne sono altri. Anzitutto quello anarchico e trotzkista (che ha conosciuto un recente "revival" con il film di Ken Loach) del sogno rivoluzionario infranto, brutalmente affossato dai comunisti, che dimentica le reali e geograficamente differenziate condizioni della Spagna e la ragionevole priorità che andava assegnata alla guerra rispetto alle esigenze di trasformazione sociale. Poi quello della guerra civile come crociata in difesa del cattolicesimo e della civiltà occidentale, che, costruito da gran parte della Chiesa spagnola nel corso degli eventi, dimentica i cattolici che stavano con la Repubblica. La Chiesa avrebbe del resto dovuto restare al di sopra delle parti. C'è poi un'altra visione mitica: quella della sollevazione militare come mossa preventiva contro un complotto comunista e, di conseguenza, della guerra civile come difesa dal comunismo; visione che, costruita dai generali ribelli, venne utilizzata da Franco e rilanciata nel clima della guerra fredda.
Romano non demitizza alcunché, adotta quest'ultimo mito. Lungi dall'offrire prospettive innovative, riporta la discussione indietro nel tempo. In primo luogo perché neppure l'anticomunismo degli anni cinquanta (si pensi a Pacciardi, Saragat, e allo stesso Koestler) ebbe bisogno di stravolgere la verità dei fatti spagnoli. In secondo luogo perché, per prendere le distanze dalle facili definizioni di fascista appioppate al regime franchista, Romano compie l'errore speculare vedendo indifferenziati comunisti e loro alleati dappertutto: tra i protagonisti della storia e gli studiosi. Risulta curioso che proprio quando la storiografia ha accettato la necessità di ricostruire l'esperienza fascista dall'interno e di non confondere la visione dell'antifascismo con quella storiografica, Romano riproponga la visione anticomunista militante del comunismo e della storia di questo secolo.
Le ragioni per cui poche pagine prive di qualunque riscontro documentario, irte di errori e non confortate da alcuno studio serio, hanno suscitato così tante discussioni e polemiche non risiedono in ciò che rivelano del passato, ma in quello che esse dicono della china presente.

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