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Due città - Elena Croce - copertina

Descrizione


Elena Croce ha sviluppato negli anni un singolare talento di memorialista controvoglia – o comunque poco incline alle raffigurazioni frontali e minuziose. Il suo tentativo è piuttosto quello di strappare alla memoria, con sottili tattiche di aggiramento, alcune nitide scene. Erano state, finora, l’infanzia e la figura del padre, Benedetto Croce, a risvegliare questo suo dono. Qui, invece, sono soprattutto alcuni incontri con persone sulle quali troppo o troppo poco è stato detto: fra gli altri Bernard Berenson, Margherita Caetani, la squisita e coraggiosa editrice di «Commerce» e «Botteghe Oscure», Mario Pannunzio, Klaus Mann, Joseph Brodsky. Intorno a loro la Croce sa disegnare, offrendoci pochi ma decisivi particolari, i vari stili di vita di qualcosa che oggi non ha più un significato così immediato: una élite, insieme intellettuale e mondana. Le sue debolezze, ma anche le sue grandi virtù, appaiono oggi remote: e alla Croce è riuscito di farle risaltare, con raro senso di equità, proprio nel confronto con ciò che ci circonda. Spartita fra «due città», Napoli e Roma, come dire fra due civiltà diverse, Elena Croce ha vissuto moltissimi aspetti della vita italiana di questi ultimi decenni che rischiano di andare perduti prima ancora di essere capiti. Per chi vorrà avvicinarsi al timbro di certe persone, alle maniere di certi ambienti, alle tonalità di certi anni, questo libro sarà un discreto e prezioso accompagnatore.

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Dettagli

1985
25 marzo 1985
106 p.
9788845906107

Valutazioni e recensioni

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Cristiana
Recensioni: 3/5

Interessante ma slegato e un po' noioso. Sembra un abbozzo. Non capisco proprio, almeno da questo libro che e' il solo che ho letto dell'autrice, come si possa sospettare che sia lei la Ferrante...

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Voce della critica


recensione di Origo, I., L'Indice 1985, n. 9

Le due città sono, come dice l'autrice, Napoli, dove è nata, e Roma, dove sono cresciuti i suoi figli. A suo parere, mentre il centro storico di Roma è stato defraudato del suo aspetto originale diventando uno shopping center, quello di Napoli (malgrado le vie degli alberghi lungo mare) ha conservato, a lungo, il suo carattere di "quartiere piccoloborghese dove la presenza di una grande università, e il tribunale di Castel Capuano, trattenevano ancora negli antichi palazzi una minoranza di alta borghesia e di intellettuali e professionisti". Così Napoli restava "una città ricca di fascino e di mistero".
L'autrice ha ricordi piuttosto esigui dell'alta società, ossia della classe napoletana ancora non dissanguata dalle emigrazioni. Ricorda il circolo del tennis, che nel novecento era stato "una roccaforte della gioventù dell'alta società napoletana". Iscriversi al tennis, scrive, era come vedersi ammessi e tollerati in una vastissima famiglia di cugini - delle "jeunes filles en fleur" bellissime e dei giovani alti, bruni, ignoranti ed eleganti; "la loro conversazione in cattivo italiano con un forte accento, non era meno ermetico ai non iniziati di quella delle ragazze evocate da Proust". Da piccola era stata condotta ad assistere a qualcuna delle loro recite di beneficenza, che consistevano in quadri viventi (da "Giulietta e Romeo" a "Carmen") oppure delle nove Muse, vestite in pepli rosa e celeste con lunghi e pesanti boccoli, che le sembravano bellissime.
Molto più tetri degli antichi palazzi nobiliari, erano in genere quelli costruiti dalla grande borghesia ottocentesca.
A Napoli la cultura d'élite aveva un solo recapito ed un solo rappresentante assoluto: l'editore Riccardo Ricciardi. Nel suo ufficio si riuniva un piccolo gruppo di intellettuali bibliofili, che egli intratteneva facendo di propria mano i pacchi dei suoi libri. Le sue edizioni - desideratissime dagli autori ed amatori - venivano terminate da lui con un'immensa pigrizia, che egli imponeva con crudeltà implacabile.
Dopo il 25 luglio (1943) Elena era partita per Napoli per vedere la sua famiglia a Sorrento, ma credeva di potersi trasferire in Piemonte, dove aveva lasciato i suoi due figli. Ma sopravvenne lo sbarco alleato a Salerno a "dividere l'Italia in due". Ed Elena per proteggere suo padre, Benedetto Croce, dal rischio di rimanere in un territorio ancora controllato dai tedeschi, lo convinse a trasferirsi con la sua famiglia a Capri, dove era protetto dal comandante Munthe (figlio del celebre medico svedese Axel Munthe). E lì le raccontò di un sergente delle Specialforces che gli aveva domandato se il Benedetto Croce da mettersi in salvo, fosse una nave!
"Dopo il suo ritorno a Roma, Elena sperava di poter continuare la rivista letteraria, "Aretusa", che aveva prodotto con suo padre, con Vitaliano Brancati, con alcuni intellettuali inglesi ed americani di passaggio e molti profughi italiani arrivati a piedi attraverso le linee - tra i quali Moravia, Antonio Rossi, Malaparte, ed il direttore della rivista, Francesco Flora. Tornata a Roma, Elena aveva offerto "Aretusa" a Carlo Muscetta, che l'accettò. Ma intanto viene proposta una nuova attività da Giuliana Benzoni "tessitrice laboriosa di ben intenzionate cospirazioni politicodiplomatiche" nell'ambiente della minoranza dell'antica nobiltà italiana antifascista. Giuliana, molto graziosa in gioventù, aveva perso il suo fidanzato - l'eroe cecoslovacco Milan Stefanic -, il cui aereo era stato abbattuto un mese prima della data in cui dovevano sposarsi - ed ora aveva deciso di dedicare tutte le sue energie alla causa antifascista. Gli arnici la chiamavano affettuosamente "la Pizia", per i suoi poteri divinatori, qualche volta frutto soltanto della sua immaginazione ma anche qualche volta veri.
Ed ora, dopo l'arrivo a Roma degli alleati proponeva ad Elena di costituire un circolo di cultura per gli alleati, e per questo di ottenere l'adesione di Marguerite, Principessa di Bassiano. Era, infatti, la persona ideale per questo compito, di origine americana (era la cognata di Francis Bildle, ministro della giustizia di Roosevelt e giudice del Tribunale di Norimberga), era conosciuta a Parigi come mecenate e promotrice di una rivista internazionale di alta qualità, "Commerce", ed inoltre era la moglie di uno dei rari rappresentanti dell'aristocrazia romana che fosse antifascista.
Per due anni il circolo, chiamato "Il ritrovo", improvvisò una serie di iniziative: conferenze, mostre d'arte, concerti, dibattiti, cene, ma purtroppo (come ricordo anch'io) lo scopo fondamentale del ritrovo - quello di aiutare gli ospiti alleati e gli intellettuali italiani a capirsi a vicenda - non funzion•. Gli alleati, come gli italiani - malgrado tutti gli sforzi di Marguerite e di Giuliana - continuavano a parlare solo fra di loro. E forse, nel caso degli alleati, contribuiva alla mancanza di cordialità e di allegria l'estremo scetticismo per quel che riguardava le bevande (vi si poteva consumare solo il thé, anche se con dolci squisiti). Così, dopo un paio d'anni, l'iniziativa non aveva più una ragione di esistere, e "Il Ritrovo" chiuse le sue porte.
Il ritrovo era chiuso, ma non l'opera di Marguerite. Il ritratto di Marguerite che ci ha lasciato Elena è forse la parte migliore del libro. Marguerite diventò la mecenate e la fondatrice di una nuova rivista internazionale, "Botteghe Oscure", per scrittori giovani e finora sconosciuti di ogni paese e di ogni lingua, di cui pubblicava gli scritti accanto a quelli dei più illustri anziani. La sua vivissima curiosità per tutto quello che era nuovo era frenata solo dal fortissimo ribrezzo puritano contro ogni volgarità. Generosissima, non era cieca nei confronti delle richieste esagerate di alcuni giovani scrittori di talento, ma continuava a pagare i loro scritti alla pari degli scrittori più celebri: Paul Valéry, Rilke, T.S. Eliot, Virginia Woolf, Péguy, Camus, Malraux, Hoffmansthal, Silone, Giorgio Bassani, Ungaretti. "Tutto intorno a lei era incantevole: la semplicità, i fiori, l'assenza di oggetti mediocri, una raffinatissima scelta di pittura moderna francese ed italiana, un'ospitalità senza limiti ed il riso di una ragazza di vent'anni". Persino dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale queste riunioni erano continuate, finché Ninfa divenne un rifugio per i partigiani delle colline ed i contadini della pianura. E proprio allora un grande dolore colpisce Marguerite e Roffredo: la morte, sul fronte albanese, del loro unico figlio Camillo. Un dolore che aveva una speciale amarezza, perché era morto per un regime ed una causa in cui non credeva. Dopo la sua scomparsa T.S. Eliot (un cugino di Marguerite ed un grande amico) le scrisse: "So che la tua perdita non diverrà più leggera... Si impara a continuare a vivere come se si fosse diventati ciechi e mutilati, e non credo nemmeno che la fede ci consola - ma, se posso dirtelo, può migliorare la qualità della nostra sofferenza, e renderla feconda, invece che inutile".
Così la pubblicazione di "Botteghe Oscure" continuava, anche se, col passare del tempo, diventava più difficile per Marguerite fare fronte alle spese sempre più alte. C'era in lei, anche in vecchiaia, una gioventù inesauribile che attirava verso di lei i giovani scrittori. Ma nel 1960, dopo la morte del suo stampatore ed amico, Luigi de Luca, e la pubblicazione del 25| numero, dovette portare a termine la sua impresa. "La tua rivista" le scrisse il poeta americano Robert Lowell, "fa parte della storia dell'Europa che risorge dopo la distruzione della guerra".
Successivamente Elena ci porta in un ambiente molto diverso, quello del celebre "re dei critici d'arte", Bernard Berenson. Nella sua villa a Settignano, i Tatti, - una casa colonica del '400 toscano, trasformata in una reggia - viveva "come un sultano orientale circondato da una schiera di amici adoranti, che vegliavano sulla persona delicata e fragile del genio".
Che questo fosse possibile, era dovuto in gran parte alla sua segretaria ed Egeria, Nicky Mariano - figlia di una baronessa baltica e di un filosofo napoletano - che univa ad una rara bellezza e perfetta educazione "un sicurissimo istinto di tutto quello che era 'qualità'". Era stata insediata ai Tatti dalla moglie di Berenson, Mary, come la sola persona capace di intraprendere la gestione laboriosa dei Tatti. Secondo Elena, ai Tatti regnava - per opera di Nicky - "un calore famigliare, sebbene fosse difficile'' [io direi impossibile] "sfuggire alla soggezione di sentirsi giudicati, quando si imparava a conoscere la passionalità dei giudizi di Berenson - una passionalità che poteva essere accusata di capriccio, ma che conteneva soprattutto il richiamo ad una misura intransigente ed ad un fiero rifiuto della mediocrità pretenziosa".
I miei ricordi di Berenson risalgono alla mia infanzia, quando frequentavo la sua villa con mia madre. Mi incuteva una grandissima soggezione, ma gli devo due doni preziosi di cui gli sarò sempre grata:
1- il consiglio, dato a mia madre, di farmi avviare agli studi classici, con il professor Solone Monti - al quale devo molte cose che in seguito, purtroppo, ho dimenticato, ma un amore dello studio e della poesia che non mi hanno mai abbandonato;
2 - L'insegnamento altrettanto prezioso di come si può (e si deve) guardare un paesaggio o un quadro. Mi raccontava la storia dell'indiano che diceva al suo bambino: "Vedi quell'uccello?" "Sì, "Vedi le sue penne?" "Sì", "Vedi il suo occhio?" "Sì", "Allora spara". E così, mi diceva, che bisogna imparare a guardare: sono i particolari che ci rivelano la verità.
Ricordo pure l'infinita pazienza e buona grazia con cui - malgrado la sua intolleranza dei "seccatori" - metteva a disposizione di uno studente le risorse della sua favolosa memoria. Quando stavo scrivendo il mio "Mercante di Prato" e cercavo delle illustrazioni degli schiavi tartari e africani portati a Firenze, diceva: "Sì, in una chiesa senese troverai degli affreschi di schiavi e schiave tartari, e sul soffitto del Palazzo Ducale una bellissima schiava africana".
Ai Tatti venivano i suoi discepoli, amici e "nemici-amici" (così come li chiamava) da ogni parte del mondo: poeti, pittori, filosofi, storici, eleganti signore di Roma e Parigi che lo stimolavano a parlare, vecchi amici di Boston e Harvard, e studenti rozzi che chiamava "einem Salon unfähig" (inadatti ad una società civile), ma ai quali permetteva di usufruire dei suoi libri e delle sue fotografie.
L'ultima parte del libro di Elena ci porta di nuovo a Firenze, ma in ambienti molto diversi da quelli dei Tatti. Prima, la sua amicizia con Pannunzio, "che era riuscito a creare nel suo settimanale quello che si usa definire un mondo senza venir meno alla propria natura, che era di un riserbo estremo". Elena dice giustamente: "i geni della socievolezza sono spesso dei grandi solitari, simili a quegli attori che cominciano ad esistere soltanto quando entrano in scena". Poi, la sua amicizia con Pietro Pancrazi, "un aristocratico alla maniera toscana, con un gusto per la semplicità intransigente". Anch'io lo conoscevo bene, perché - quando stavo con Elsa Dallolio nel Palazzone di Cortona, - veniva spesso a passare le serate con noi. Era un uomo di cui il talento letterario, come il coraggio morale e la profonda umanità, sono stati apprezzati pienamente soltanto da pochi amici intimi.
Finalmente, Elena descrive tutto quello che ha fatto - tra il 1950 e 1960 - per una causa che le era diventata carissima, la difesa dell'ambiente, che portò alla formazione dell'Associazione "Italia Nostra". La presidenza fu subito assunta da Umberto Zanotti Bianco, al quale dobbiamo se la Via Appia Antica ha ancora conservato il suo splendore, e che fu aiutato da Filippo Caracciolo.
A Firenze, due case l'accoglievano spesso e cordialmente: quella dei coniugi De Marinis e quella di Nannina e Piero Fossi, per cui "l'espressione 'focolare acceso', simbolo di ospitalità non era retorica". Lui era appassionatissimo politicamente ed intellettualmente e portava un grande calore nell'amicizia; sua moglie Nannina "aveva allo stesso tempo i pregi di un'antica fiorentina e di un'antica americana, perché sua bisnonna era stata la Mrs Bronson, la cui casa di Venezia ai tempi di Henry James era una specie di faro dell'ospitalità americana". "I De Marinis invece vivevano in una reggia per lo splendor dei giardini e la preziosità dell'arredamento". Egli, però -non si capisce perché - aveva deciso di perpetuare attraverso un'istituzione l'ambiente della sua grandiosa villa fiorentina; mentre alla moglie destinava la sua casa settecentesca vicino a Pistoia. "Ne nacque", scrive Elena, "un dissidio la cui amarezza ha offerto uno spettacolo tristissimo a chi li conosceva. Intorno a lui si aggiravano oscuri rappresentanti di ricche fondazioni mentre lei, chiusa nelle sue stanze meditava femminile vendetta e l'avrebbe consumata. Dopo la scomparsa di De Marinis, lei vendette la casa settecentesca pistoiese per ricomprare quella di Firenze: e tutto ciò che era stato da loro idoleggiato, i giardini stupendi, gli arazzi, i libri rarissimi, andò disperso".
Elena propose, come soluzione, il dono della villa al FAI (versione italiana del National Trust inglese). Ma la proposta non fu accettata. Ciò nonostante, bisogna ricordare che Elena è stata la pioniera per la difesa dell'ambiente che in seguito si è sviluppata e arricchita, e ha dato un vero e grande contributo (specialmente attraverso il lavoro indefesso della famiglia Pasolini) alla conservazione delle bellezze dell'Italia.

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Elena Croce

(Napoli 1915 - Roma 1994) scrittrice italiana. Figlia di Benedetto C., ha pubblicato libri di memorie in limpida prosa: Ricordi familiari (1952), L’infanzia dorata (1966), Due città (1985). Tra gli studi critici, Romantici inglesi e altri saggi (1962), Francesco De Sanctis (1964, in collaborazione con la sorella Alda), Il congedo del romanzo (1982), Il romanticismo spagnolo (1986).

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