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Claudio Rodríguez (1934-1999) è forse, tra i grandi poeti spagnoli del 900, quello meno conosciuto e letto in Italia. Quindi bene ha fatto l'editore fiorentino Passigli a proporre la sua straordinaria raccolta d'esordio, Don de la ebriedad, pubblicata nel 1953, quando l'autore aveva appena diciannove anni. Salutato dal suo maestro Vicente Aleixandre come «pieno di purezza e umanità», il giovane Rodríguez si impose subito all'attenzione della critica e del pubblico per la sua prepotente ed energica originalità, che si rifaceva a Rimbaud e ai mistici spagnoli piuttosto che ai poeti europei contemporanei. Scarsamente interessato all'auscultazione del suo io e alla celebrazione autobiografica, il poeta poco più che adolescente esprimeva una forte esigenza etica e spirituale verso l'immersione panica e vertiginosa nella bellezza della natura, verso la nobiltà dell'eros e il dovere testimoniale della poesia. L'ebbrezza decantata nei suoi versi non è tanto quella dei sensi, quanto il tumulto dell'anima, l'emozione non controllabile del pensiero che contempla il mistero della pura esistenza, e si interroga su di esso, quasi sopraffatto dalla gratitudine e dallo stupore. "Siempre la claridad viene del cielo": con questo luminoso endecasillabo si apre la prima sezione del libro, che così continua: "è un dono: non si trova tra le cose / ma molto sopra ad esse, e le pervade / di ciò facendo vita e opere proprie". L'assillante interrogarsi sulla creazione, sul desiderio di essere che anima uomini, animali e piante, facendoli nascere e morire, crescere e trasformarsi anche nella pura incoscienza materiale, rende il poeta quasi un veggente, scorporandolo da se stesso, portavoce di quanto non sa esprimersi e si limita a vegetare, a ruotare nel cosmo, a vibrare nel pulviscolo della luce. Con una partecipe e approfondita prefazione di Pietro Taravacci, questo volume sa restituirci la voce della poesia più limpida, quando si innalza oltre la sua stessa finitudine e materialità.
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