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Le donne nei media arabi. Tra aspettative tradite e nuove opportunità - copertina
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Le donne nei media arabi. Tra aspettative tradite e nuove opportunità - copertina

Descrizione


Questo volume racconta - attraverso l'analisi di vecchi e nuovi media -la condizione delle donne in Egitto, Tunisia e Marocco dopo le rivolte che hanno scosso la regione araba tra il 2011 e il 2012. Le autrici dei saggi qui raccolti parlano di promesse tradite ma anche di una nuova libertà di espressione e di inedite opportunità. Mostrano donne in prima fila nell'informazione e le difficoltà che incontrano sia nel fare le giornaliste sia nell'essere oggetto di notizia. Descrivono l'affermarsi di presentatrici velate e di predicatoci religiose sugli schermi televisivi, analizzano i modelli di femminilità e mascolinità veicolati da film e soap opera. Danno voce alle campagne contro la violenza di genere portate avanti tramite vignette, blog e graffiti. Narrano delle tensioni tra visioni islamiste e visioni laiche della società, studiano le politiche mediatiche di vecchi e nuovi governi, scandagliano l'attivismo femminile per l'uguaglianza dei diritti. Grazie a questo studio dei media da una prospettiva di genere emerge quindi una pluralità di immagini di donne che mette in guardia da qualsiasi tentazione riduzionistica, e suggerisce invece di prendere in considerazione la diversità delle esperienze femminili nel mondo arabo.
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Dettagli

2014
24 aprile 2014
128 p., Brossura
9788843072163

Voce della critica

  Il lavoro collettaneo curato dalla prolifica studiosa delle questioni di genere nel mondo arabo, Renata Pepicelli, nel dare conto della condizione femminile in Tunisia, Marocco ed Egitto nel periodo a cavallo delle rivoluzioni di primavera, mira ancora una volta (secondo un suo stile consolidato) a una descrizione dell'altra che sia il più possibile scevra da stereotipi e pregiudizi orientalisti. A questo scopo nel libro le domande: chi è la donna araba oggi, quali le sue aspirazioni identitarie e la sua percezione di sé, nell'incontro fra modelli islamici e modelli laici, di stato e di mercato, occidentali e non, cercano risposta (attraverso una lente di osservazione partecipe) nell'immagine femminile che scaturisce dall'interno, ossia dai media locali. Mentre il sistema mediatico occidentale, affetto da un'ottica etnocentrica e banalizzante "rimasta sostanzialmente ancorata alla verifica o alla smentita del luogo comune" della donna araba passiva confinata alla sfera privata, registra con sorpresa il protagonismo femminile nelle rivolte di piazza Tahrir o nelle sollevazioni contro Ben Ali (dimenticando il ruolo centrale svolto dalle donne in oltre un secolo di battaglie) l'universo dei media arabi, al contrario, veicola una pluralità di modelli femminili, spesso assai diversi fra loro, la cui analisi costituisce l'oggetto di osservazione privilegiato dalle autrici dei saggi presenti nel testo. Sia i vecchi che i nuovi media, ossia la televisione e il cinema da un lato e le vignette, i graffiti, i blog e Facebook dall'altra, vengono analizzati, ci avvisa Pepicelli nella sua introduzione, tenendo presenti quattro coppie dicotomiche ritenute centrali: rappresentazione/autorappresentazione, empowerment/disempowerment, potere/contropotere, esclusione/partecipazione. Leggendo il libro le dicotomie, tuttavia, ben presto si stemperano e tosto diviene chiaro come sia difficile, per esempio, distinguere fra come ci si rappresenta e come ti rappresentano gli altri, ossia fra rappresentazione di sé e interiorizzazione di modelli esterni, siano essi laici e individualistici oppure religiosi e relazionali. Salvo credere che l'autorappresentazione come donne autonome, indipendenti e titolari di diritti non sia mai condizionata da un contesto socio-culturale esterno, mentre invece lo sia sempre la rappresentazione di sé come parte di una comunità familiare, verso i cui membri ci si riconosca come portatrici di doveri. Allo stesso modo ciò che dà potere alle donne o glielo toglie (procreare e dedicarsi alla cura dei propri figli e della famiglia oppure essere protagonista nel mercato del lavoro, ma magari rinunciare per questo alla maternità; far parte di un gruppo familiare femminile allargato oppure essere single; portare il velo in segno di modestia, ma anche di forza morale, o al contrario avere il capo scoperto, magari tinto, ecc…) ha poco di ontologico e molto di costruito. L'individuazione, d'altronde, del punto di vista mainstream, rispetto a quello critico, dipende ovviamente da quale discorso si considera egemone. Chi è dunque la donna araba, nella sua rappresentazione o autorappresentazione, attraverso i media tunisini, marocchini ed egiziani a cavallo delle primavere rivoluzionarie? È la donna che, come la tunisina Amina (raccontata da Cecilia Della Negra) pubblica su Facebook la propria fotografia a seno nudo, con una scritta sulla pelle "il mio corpo mi appartiene, non è l'onore di nessuno" oppure quella che, in risposta, afferma di essere musulmana e di non aver alcun bisogno di essere liberata? È la donna delle soap opere (musalsalat) tunisine, siriane o turche (analizzate a fondo da Renata Pepicelli), che coniuga la fedeltà matrimoniale, la cura dei figli e della casa ‒ all'interno di un matrimonio monogamico e paritario ‒ con la realizzazione professionale, in una cornice laica e consumista, oppure la giovane moglie di uno dei cavalieri assoldati da Mubarak nella battaglia dei cammelli, che in un film di Yousri Nasrallah (su cui si sofferma Carolina Popolani) esprime solidarietà e riconoscenza a un'altra donna, dai costumi occidentali e quindi "straniera", offrendole di sposare il proprio marito? Sono le attrici e le donne di spettacolo, che di fronte al divieto di Mubarak di portare il velo, abbandonano il grande e il piccolo schermo per ritornare velate sulla scena in tv o produzioni private oppure sono le donne che si scandalizzano di fronte all'apparizione della prima conduttrice di telegiornale velata del dopo Mubarak? E ancora, esprime un maggior empowerment la vignettista egiziana Doaa el-Adl (su cui scrive Azzurra Meringolo), che denuncia attraverso le sue opere le spose minorenni e la circoncisione femminile oppure le telepredicatrici musulmane (di cui dà conto Sara Borrillo) che, sui canali satellitari egiziani o attraverso il canale di stato Assadissa in Marocco, conducono programmi femminili religiosi nel segno della pietas islamica e che, pur non promuovendo l'uguaglianza di genere, dimostrano un'autorevolezza nell'attività dell'elaborazione del sapere islamico ufficiale che nulla ha da invidiare agli uomini che, soli, precedentemente ne avevano l'appannaggio? "Ciò che appare a due anni dallo scoppio delle rivolte è quindi una pluralità di modelli e di messaggi veicolati dalle televisioni e dagli altri media arabi", sintetizza nell'introduzione Pepicelli. Rappresentato o autorappresentato il corpo della donna è, però, sempre portatore di messaggi che la trascendono e che ne fanno il simbolo della modernità o del conservatorismo, della civiltà o della barbarie, del modello di società da sostenere o da combattere, in un più ampio quadro di geopolitica del potere (come testimoniato, per esempio, dalla strumentalizzazione del discorso sulla liberazione delle donne afghane da parte di Cherie Blair o Laura Bush a giustificazione dell'intervento armato inglese e americano in quel paese nel 2001). La costruzione mediatica della soggettività femminile, che passi attraverso il femminismo di stato, il femminismo di mercato, l'insegnamento delle telepredicatrici religiose o il corpo nudo della blogger Aliaa El-Mahdy, ha certamente il suo potente impatto politico e sociale. Una forte parte della nostra soggettività di genere, tuttavia, si costruisce dal basso, nelle pratiche della quotidianità ancorate alla vita di relazione, non virtuale, bensì reale. In tal senso l'immagine mediatica della donna non può che essere una rappresentazione parziale, oltre che spesso distorta, della realtà femminile. È questo ciò che, in un doppio gioco di specchi, sembra dirci, insieme ad altri murales apparsi per le vie del Cairo (e penso alla donna che indossando il velo, pantaloni attillati e tacchi a spillo colpisce i suoi avversari con una bomboletta per dipingere stencil) il graffiti riprodotto sulla copertina del bel libro curato da Renata Pepicelli: nello schermo di una televisione appare il volto di un presentatore che ha le sembianze di Pinocchio; al fianco dello schermo vi è un uomo con la barba, la mimetica e un fucile puntato su di una ragazza, che a sua volta gli punta contro una telecamera. L'oppressore della donna è colui che ne costruisce strumentalmente l'identità attraverso i mezzi di comunicazione di massa, il suo modo di difendersi è quello di puntare la macchina mediatica su di lui, così da riportare nell'ombra la sua soggettività violata.   Elisabetta Grande

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