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2019
1 gennaio 2019
256 p.
9788886345286

Voce della critica


recensioni di De Micco, V. L'Indice del 2000, n. 04

Il libro curato da Cardamone, Inglese e Zorzetto rappresenta un prodotto maturo della riflessione etnopsichiatrica italiana, area di ricerca giovane nel nostro paese, ma che articola un suo discorso originale frutto anche dell'attenzione prestata all'opera demartiniana e alle vicissitudini storiche e psicopatologiche dell'emigrazione italiana. Il volume si pone come una sorta di anello di congiunzione tra intuizioni etnopsichiatriche ante litteram e le nuove piste nascenti della pratica disciplinare, che non si limitano ai disturbi psichici degli immigrati, ma, attraverso una riflessione approfondita sul nesso cruciale cultura-psiche, tentano di aggredire configurazioni psicopatologiche gravi e per certi versi enigmatiche per le pratiche terapeutiche comuni, come ad esempio l'anoressia mentale, a cui è dedicato uno dei saggi più interessanti. L'intento esplicito è quello di utilizzare il grimaldello euristico dell'etnopsichiatria per scardinare nozioni e pratiche inveterate in ambito psichiatrico e anche psicoterapeutico. Il rischio implicito è però quello di usare a tal fine nozioni tratte da altri ambiti disciplinari, in particolare dal campo etnoantropologico, come se fossero delle teste d'ariete così salde da poter essere utilizzate in maniera univoca e priva di ambiguità. Rinunciando a contributi di antropologi e scegliendo di centrare il dibattito tra gli operatori della salute mentale, i curatori intendono affermare un autonomo campo di ricerca etnopsichiatrico che dovrà cimentarsi principalmente con le evenienze cliniche. Il pericolo è che però in tal modo si perda di vista il travaglio epistemologico che attraversa quelle stesse nozioni cardine che diventano la chiave di volta interpretativa dell'intero discorso etnopsichiatrico, prime fra tutte le nozioni di cultura e di identità culturale, come ci dimostra la lettura di Amselle. È difficile non condividere la critica serrata che a più riprese in diversi articoli (Coppo, Inglese) viene rivolta alla presunzione invadente del sapere psichiatrico occidentale che relega nell'insussistente ciò che non comprende, agli strumenti per certi versi così carenti delle psicoterapie occidentali, che sembrano non riuscire mai a confrontarsi fino in fondo con quell'antropologia della vulnerabilità di cui parla Stanghellini. Eppure la sensazione è che a tal fine venga utilizzata un'idea di cultura e di identità culturale che forse non ha un riscontro così univoco nell'esperienza individuale e collettiva. Anche il tentativo più o meno chiaramente espresso di elidere del tutto la mediazione del sapere degli antropologi per accostarsi direttamente al sapere dei terapeuti tradizionali suscita alcuni interrogativi. Questo atteggiamento può trovare una sua valida giustificazione nella preoccupazione terapeutica che lo psichiatra condivide in fondo più con un guaritore che con un antropologo, ma non possiamo ignorare che poi le categorie attraverso le quali esprimiamo e concettualizziamo le nostre idee e le nostre scoperte si fondano su quello stesso sapere antropologico.
Uno degli argomenti affrontati con maggior rigore, in particolare da Inglese, in collaborazione con Peccarisi, è rappresentato dalle cosiddette culture-bound syndromes (CBS), sindromi riscontrate in alcune aree geografiche che hanno suscitato l'interesse degli psichiatri in particolare per il loro essere dei veri e propri rompicapo dal punto di vista nosografico e psicopatologico. Inglese dimostra molto efficacemente la fallacia delle categorie diagnostiche e interpretative occidentali nel cogliere la complessità della dimensione culturale in quanto ordinatrice, e dunque anche potenzialmente risolutrice, del disturbo psicologico individuale. Verrebbe però da chiedersi se è possibile che tali configurazioni culturali siano rimaste sempre identiche nelle loro manifestazioni o se il loro valore sociale e politico non abbia assunto significati mutevoli a seconda delle contingenze storiche per gli stessi attori locali. Una ricerca del genere è stata svolta da Byron Good proprio riguardo all'amok malese, restituendoci un panorama molto variegato e complesso delle dinamiche socioculturali, rispetto al disagio individuale e collettivo, di quanto l'idea di una sorta di CBS monolitiche potrebbe indurre a credere. Se si contrappongono troppo drasticamente culture, identità e terapie occidentali e non occidentali si corre il rischio di non vedere, con le parole di Amselle, il "meticciato originario" in cui siamo immersi, ovverosia "la presenza dello Stato nel segmentario, dell'Islam nel paganesimo, dello scritto nell'orale", in definitiva di non vedere come il medesimo può riprodursi nell'altro. Identità e terapia sono, in definitiva, oggetto di una contesa, in qualunque contesto etnico e socioculturale, sono una posta in gioco che non può essere definitivamente assegnata pena la loro totale perdita di senso.

(V.D.M.)

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