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Della pittura italiana. Studi storico-critici. Le gallerie Borghese e Doria-Pamphili in Roma - Giovanni Morelli - copertina
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Della pittura italiana. Studi storico-critici. Le gallerie Borghese e Doria-Pamphili in Roma - Giovanni Morelli - copertina

Descrizione


Di Giovanni Morelli è stato detto che la sua opera sta alla critica darte come quella di Freud alla psicologia (e di fatto fu Freud stesso a ipotizzare un parallelismo fra la tecnica psicoanalitica e il metodo morelliano). Questo grande conoscitore, dallo spirito impertinente, antiaccademico e mistificatorio, è infatti linventore di un «metodo» che rivoluzionò le attribuzioni di celebri quadri nei più grandi musei dEuropa (nel solo museo di Dresda cinquantasei quadri cambiarono firma in seguito a scoperte di Morelli). Quel metodo si fondava sullesame stilistico della esecuzione di certi dettagli anatomici (per esempio la forma di ununghia o il lobo dellorecchio) e da questi tratti stilistici risaliva allautore.
Morelli scrisse il suo libro fondamentale, Della pittura italiana, in tedesco e lo pubblicò nel 1890 con lo pseudonimo Ivan Lermolieff. Lopera fece scalpore, anche perché in essa per la prima volta Morelli esponeva il suo metodo di attribuzione, illustrandolo con numerosi esempi sensazionali: per esempio, lidentificazione di alcuni ritratti di Raffaello, in precedenza attribuiti ad altri, di opere di Dosso Dossi e Piero di Cosimo. Ledizione italiana, curata da Gustavo Frizzoni, amico di Morelli, nel 1897, da allora non è stata più ristampata. Ma linfluenza di questopera è stata immensa e ultimamente, soprattutto attraverso gli studi di Edgar Wind, è stata rivendicata anche limportanza di Morelli come teorico. Diversi aspetti della vita e del carattere di Morelli erano tuttavia rimasti in ombra, e la presente edizione porterà molte novità anche in questo senso. La curatrice, Jaynie Anderson, ha infatti avuto accesso ad archivi sino ad ora ignoti e ha così ricostruito per la prima volta un sorprendente profilo biografico di Morelli, accompagnando poi il testo con una puntuale analisi delle complicate vicende, sino a oggi, dei quadri da lui attribuiti.
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Dettagli

1991
28 ottobre 1991
630 p., ill.
9788845908651

Voce della critica


recensione di Ghelardi, M., L'Indice 1992, n. 6

Discorrendo nel 1876 del frammento di Goethe su Nausicaa, Jacob Burckhardt si rammaricava che l'autore, offuscato nel giardino di Palermo dalle sue preoccupazioni botaniche sulla "pianta originaria" (Urpflanze), avesse sottratto alla progettata opera l'ora solenne e decisiva: "la botanica, difatti, avrebbe potuto conseguire le proprie scoperte e le proprie verità anche senza Goethe... mentre le grandi creazioni artistiche e poetiche sono indissolubilmente legate al nome di un determinato maestro e non sorgono se questi impiega le proprie forze altrove".
Ho avuto modo di ricordare più volte questa osservazione leggendo l'opera di Giovanni Morelli "Della Pittura italiana" che l'editore Adelphi ha nuovamente pubblicato dopo circa un secolo dalla sua prima uscita in traduzione italiana. Chi fosse questo curioso personaggio che, nato nel 1816 e dopo aver studiato medicina e scienze naturali a Monaco e ad Erlangen tra il 1833 e il 1838 e frequentato conoscitori, storici dell'arte e restauratori italiani, si dedicò dopo la cocente delusione del 1848 allo studio e alla raccolta di opere d'arte, è cosa abbastanza nota per essere qui ripetuta nei dettagli. Anche se bisogna pur dire che solo a partire da una ampia confidenza con la sua biografia intellettuale, peraltro puntigliosamente ricostruita dalla curatrice del volume, può essere collocato nella giusta luce quel suo modo, a dire il vero un po' istrionesco, di presentare le sue scoperte onomastiche come risultato di un sapere esoterico e nel contempo di un metodo positivo (d'altra parte, il cosiddetto positivitismo fu anche questo, e non solo un; ideale asettico volto alla pura ricerca sperimentale).
Giovanni Agosti, recensendo da buon storico dell'arte il volume testé pubblicato, ha giustamente osservato la carenza del commento testuale, fatto ancor più sconcertante considerati il carattere e lo scopo dell'opera, ove l'autore presenta il suo nuovo metodo attribuzionista come la pietra angolare per sottrarre all'arbitrio estetizzante e personalistico degli storici dell'arte e dei filosofi la paternità della gran parte delle pitture italiane del XV, e XVI, secolo. Un metodo, sottolinea non senza enfasi il vivisecteur Morelli, che è parto di una conoscenza morfologica e grammaticale delle opere d'arte (i famosi nasi, lobi, unghie e cosi via) e non di un cieco culto per i documenti scritti.
Ma: qual è l'origine di questo testo e quali gli intenti reali dell'autore che amava definirsi collezionista e 'marchand amateur'?
Sappiamo che tra il 1874 e il 1876 Morelli pubblicò, sotto lo pseudonimo di Ivan Lermolieff, una serie di contributi riguardanti la Galleria Borghese di Roma sulla "Zeitschrift fur bildende Kunst". Qui, per la prima volta, egli rese nota la scientificità del suo metodo di attribuzione attraverso una considerevole quantità di esempi. Pochi anni dopo, nel 1880, presso l'editore Seemann di Lipsia, comparve il suo primo libro sui dipinti dei maestri italiani nelle pinacoteche di Monaco, Dresda e Berlino. Fu questa l'occasione per avventarsi apertamente, e non senza acrimonia, contro l'opera di Crowe e Cavalcaselle e perfino per mostrare pubblicamente tutto il suo disprezzo anche nei confronti di Otto Mundler, sulle cui ricerche erano peraltro basate molte delle nuove attribuzioni morelliane e al quale risaliva pure, un'importante recensione critica alla "History of Painting" di Crowe e Cavalcaselle che Morelli ben conosceva. Solo a partire dal 1890 iniziò ad uscire, sempre il lingua tedesca, il corpus dei suoi scritti che l'autore stesso aveva previsto in tre volumi. Il primo, adesso ripubblicato, sulle gallerie Borghese e Doria-Panfili a Roma, apparve nello stesso anno come versione ampliata e rivista degli articoli risalenti agli anni settanta e fu tradotto postumo nel 1897 da Gustavo Frizzoni; mentre nel 1891, anno di morte di Morelli apparve il secondo volume degli scritti che comprendeva il testo rivisto sulle gallerie tedesche comparso nel 1880. Solo il terzo tomo non poté essere seguito direttamente dall'autore e, incompiuto, comparve nel 1893 a cura di Gustavo Frizzoni.
Già nel proemio a "Della Pittura italiana" l'autore si mostra sollecito nell'esplicitare quello che ritiene il fondamento originale del suo metodo attribuzionista: "la forma fondamentale tanto della mano quanto dell'orecchio è caratteristica di tutti gli artisti originali e può servir di norma quindi nell'attribuzione delle loro opere" (p. 21). Questa osservazione viene ripresa e articolata ulteriormente nel capitolo introduttivo dell'opera intitolato "Concetti fondamentali e metodo" (pp. 25-75), ove ad un dialogo tra un anziano signore italiano esperto di cose d'arte e un russo ignorante, ancorché desideroso di apprendere, l'autore affida il compito di esplicitare il senso originale della sua metodologia. Chiarissima è in queste pagine, ma anche lungo tutto il volume, la sua polemica contro la critica d'arte di lingua tedesca, cui peraltro l'autore stesso direttamente si rivolge, giacché essa appare a Morelli metodicamente cieca e nel contempo surrogata da una critica a sfondo filosofeggiante, o smembrata nelle vicende biografiche dei singoli artisti, se non addirittura nella più imponderabile storia della cultura.
Di fronte a questo panorama, Morelli afferma decisamente la scientificità del suo nuovo metodo, il quale sembra poggiare sulla omologia tra quelle forme originarie naturali che una robusta tradizione epistemologica aveva cercato di individuare e gli elementi grammaticali di un'opera d'arte: "l'ossatura vedesi pronunciata attraverso l'involucro della carne e perciò meglio spiccano quelle forme caratteristiche che sono proprie ad ogni maestro" (p. 51).
Jaynie Anderson, curatrice del volume, ha insistito molto, nella sua lunga e ben documentata appendice, sull'importanza che avrebbe avuto per l'autore il metodo scientifico di Cuvier: per identificare l'autore di un dipinto si tratterebbe infatti di confrontare dopo un'attenta osservazione vari frammenti, scelti fra quelli di più grande valore, e individuare poi nella loro cortelazione il. nucleo di un metodo comparativo. Insomma, Morelli si presenta non solo come un uomo teso ad osservare i quadri con l'occhio di un anatomista, ma anche come colui che ha cercato di fissare i presupposti di un metodo scientifico che permetta di riconoscere con sicurezza le opere di determinati artisti attraverso tre classi di caratteri principali: posizione e movimento del corpo umano (forma del viso, panneggio, ecc.); particolari anatomici (mano, orecchio, naso e così via); infine, attenzione alla cosiddetta idiosincrasia del pittore grazie alla quale il singolo artista mostra inconsapevolmente certi suoi modi caratteristici.
D'altra parte, l'autore non pensava che la sua metodologia fosse applicabile ai manieristi posteriori a Raffaello, poiché, venendo meno a livello grammaticale ogni individualità, non sarebbe possibile giungere ad un risultato certo.
Ma, ammesso pure che in Cuvier Morelli avesse avuto il referente originario del suo metodo, è possibile pensare che un simile tentativo, in parte perseguito anche da Goethe per risalire alle forme originarie degli organismi naturali, possa essere veramente applicato anche alle produzioni umane? In fondo, proprio la "Goethezeit", con la sua ricerca morfologica. aveva cercato di sottrarre la forma artistica al destino del rigido determinismo e del divoramento del tempo. Non solo. Si può prescindere in un'opera d'arte dal rapporto tra la sua forma e la sua funzione? Detto altrimenti: tra la funzione e la forma individuale non esiste forse una corrrelazione, per cui l'una tende, a seconda dei casi, a modificare o ad influenzare l'altra? Soprattutto rispetto a quest'ultimo interrogativo ci sembra decisivo affrontare una discussione del metodo morelliano che non voglia limitarsi ad un puro interesse antiquario, giacché solo in tale prospettiva ha senso considerare la sua idea della grammatica e della morfologia artistica. L'opera del Morelli è dunque importante rispetto ad un certo formalismo e non perché muove o fa proprio il metodo comparativo di Cuvier. In altre parole: obsoleta appare l'idea, che la curatrice difende animosamente, secondo cui ogni ricerca necessita di un linguaggio protocollare entro cui discutere e sistemare le cosiddette osservazioni scientifiche. In tal senso, mi sembra vada accolta un'osservazione che Carlo Ginzburg ha fatto quando ha inteso riferire il metodo morelliano ad una pratica diagnostica più che ad un'idea di anatomia comparata. Non altrimenti, infatti, va intesa l'osservazione che Morelli riferisce riguardo a se stesso e al suo acerrimo nemico Bode: "io come medico, egli come legale".
Quando dunque il suo contemporaneo Jacob Burckhardt discute indirettamente, nel suo ultimo manoscritto di lezioni, il metodo di Morelli prendendo spunto da un'analisi delle mani raffigurate da Rubens in alcuni dipinti esposti a Vienna, o, in altri contesti, usa lo scherzoso riferimento ai "nuovi battesimi", egli vuole indicare che l'attribuzione non può esaurire il valore esclusivo di un'opera d'arte, la quale va invece analizzata morfologicamente e considerata sincronicamente, cioè rispetto al genere e al compito che essa è stata chiamata ad assolvere.
Del resto, lo storico svizzero ha sempre confessato di non interessarsi troppo alle lotte fra i conoscitori, di non essere disposto a seguire sul campo di battaglia i vari contendenti, visto che in una lettera a Frizzoni del 28 dicembre 1888 scrive non senza ironia, e con implicito riferimento a Morelli, "la critica delle attribuzioni è sempre stata il mio lato debole, e le mie opinioni personali non possono essere di nessun peso in confronto a quell'immensa attività, colla quale presentemente si fissa il carattere di tale e tale antico artista".
Ai "nuovi battesimi", a cui peraltro non era estraneo anche l'interesse corposo dei nuovi mercanti, Burckhardt preferì quindi l'arte come qualcosa che contribuisce a temperare la seriosità dei rapporti, le complicazioni intellettuali e, non ultimi, i commerci della vita: "ove l'arte non può portare niente di bene, almeno essa finisce con l'occupare il posto del male sempre meglio di esso". Non era poco per un uomo che aveva scritto, e pensato da sempre "il potere è in sé malvagio".
Perciò, ai "nuovi battesimi" predilesse una disamina delle opere artistiche, lette "nach Inhalt und Aufgaben", ed evitò di prendere apertamente posizione verso il metodo attribuzionista di Morelli, concentrando invece emblematicamente tutta l'attenzione in una delle sue ultime fatiche pubbliche su quei bellissimi quadri che "il terribile senatore" aveva appassionatamente raccolto nella sua galleria di Bergamo.

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