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De psychagogia. Editio princeps dal laurenziano 58, 15
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1997
1 gennaio 1997
VIII-152 p.
9788876942594

Voce della critica



Filefo, Francesco, De psychagogia, Edizioni dell'Orso, 1997
Cecaumeno, Raccomandazioni e consigli di un galantuomo, Edizioni dell'Orso, 1998
recensioni di Gallina, M. L'Indice del 1999, n. 06

Sostiene George Steiner nel suo bel libro Le Antigoni (Garzanti, 1990): "Anche prima di Joyce le nostre peregrinazioni e i nostri ritorni sono stati quelli di Odisseo. Il dolore esasperato delle donne offese continua a parlare per bocca di Medea. Le donne troiane danno voce ai nostri lamenti sulla guerra (...). Edipo, Narciso sono assunti per dare dignità, per definire i nostri complessi". Che si tratti di Marx che ha preso Prometeo come emblema della sua causa, o dell’analisi freudiana al cui centro vi è Edipo, o ancora dei capolavori letterari della modernità – dall’Ulisse di Joyce alle Elettre, Elene, Antigoni, Medee resuscitate da O’Neil, Hauptmann, Sartre o Eliot –, la cultura europea vive dei miti greci e della loro incredibile e duratura fertilità. Quasi una tirannia della Grecia sulla nostra mente, se è vero quanto ancora afferma Steiner e cioè che nei venti e più secoli dalla fine della Grecia classica a oggi il nostro modo di pensare non ha aggiunto una sola forma grammaticale nuova: "La gamma dei passati e dei futuri, degli ottativi e dei congiuntivi, che autorizza il ricordo e l’attesa, che permette alla speranza e all’ipotesi irreale di creare uno spazio per lo spirito in mezzo alla ressa degli imperativi del biologico, si organizza in una struttura greca. Lo stesso si verifica per la conoscenza, per la sintassi della deduzione e dell’induzione, della prova e della negazione che costituiscono l’alfabeto del pensiero razionale". Una grammatica e una sintassi del pensiero che indussero non soltanto Shelley a sostenere – e non ci meravigliamo più di tanto – "Siamo tutti Greci", ma che anche destarono lo stupore – e qui la sorpresa è forse maggiore – di Clifford, il marito paralizzato di Lady Chatterley, che nel romanzo di D.H. Lawrence afferma: "Colombo che scopre l’America è nulla a paragone di questi Greci dell’origine i quali scoprono di avere un’anima logica e ragionante".

Quell’esperienza, tuttavia, rischiò di perdersi: è ben risaputo, pur se si continua spesso ad attribuirne la causa, non giustamente, a una pretesa "lunga notte medievale". Meno conosciuto invece è che se l’Occidente poté ritrovare, e poi arricchire e trasformare quegli antichi valori dando vita a una peculiare cultura europea, ciò fu possibile anche grazie all’azione di Bisanzio, che fin dai primordi della propria civiltà contribuì, soprattutto tramite l’azione dei grandi Padri cappadoci, a salvare l’eredità antica inserendo il cristianesimo entro i quadri di quell’ellenismo che diede alla nuova religione la sua universalità. E due secoli dopo Giustiniano (527-65), raccolta e consacrata la nozione greca della Legge e la concezione romana del Diritto, lasciava in preziosa eredità per i tempi a venire un codex senza il quale sarebbe stata impensabile nelle università occidentali del secolo XII la rinascita stessa della scienza del diritto. Ma fu soprattutto durante la rinascenza dei secoli IX e X che Bisanzio – per usare le parole di Paul Lemerle, che di quel "primo umanesimo" è stato all’inizio degli anni settanta magistrale interprete – "procedette a un secondo salvataggio delle lettere elleniche", in virtù di una rivoluzione delle tecniche scrittorie e dell’appassionata attività di alcuni tra i suoi più eminenti intellettuali – Fozio, Leone il Matematico, Giovanni il Grammatico, Areta di Cesarea –, impegnati tutti a ricercare antichi manoscritti, a copiarli in una grafia "minuscola", più economica e facilmente leggibile, a darne edizioni filologicamente corrette. Fermenti di un umanesimo cristiano elitario e ricco di esiti positivi, fiducioso nelle virtù della parola e pronto a riconoscersi in Psello, che, nel secolo XI, in un’epistola indirizzata a Michele Cerulario patriarca di Costantinopoli, affermava: "Riconosco di esser un uomo, essere cangiante e volubile, anima razionale che usa di un corpo, strana mescolanza di contrari che si armonizzano" (Criscuolo, 1973). Infine i secoli XIII-XV, che senza dubbio segnarono un periodo di crisi e di decadenza politica eppure, ancora una volta, di splendore culturale. Gran parte dei manoscritti all’origine delle nostre moderne edizioni di testi classici furono tramandati da quel mondo e da quell’età, da uomini di cultura bizantini come Massimo Planude, Triklinio, Chortasmeno. Per non dire dell’influenza esercitata da parte degli eruditi greci – emigrati dall’Oriente bizantino all’Europa occidentale dopo la conquista turca di Costantinopoli nel 1453 – sul rinnovamento dello studio delle lettere elleniche nel Rinascimento italiano.

È in questa prospettiva di lunga durata che si situa "Hellenica", la collana di testi e strumenti di letteratura antica, medievale e umanistica, avviata dalle Edizioni dell’Orso, "il cui orizzonte – come scrive Enrico V. Maltese che ne è ispiratore e direttore – è quello della grecità letteraria come manifestazione di un vitale continuum che giunge fino all’età moderna". Un continuum che mette al suo centro l’interesse per il testo inteso nel senso più ampio, vale a dire per tutto ciò che si presenta come documento dell’espressione in lingua greca – dalla cultura letteraria dotta ad altri testi di carattere economico, politico o folklorico –, col proposito di indagarne altresì l’evoluzione nell’arco del millennio bizantino e oltre. Non stupisce dunque che i primi due volumi della collana siano rispettivamente dedicati alla Psychagogia di Francesco Filelfo – di cui si dà un’eccellente editio princeps corredata da una dotta introduzione e da un’accurata presentazione dei singoli carmi – e da un’edizione criticamente rivista dei Consigli di Cecaumeno con a fianco un’elegante traduzione italiana corredata da un utile, anche se talvolta un po’ generico, apparato di note. E invero di quel primo risorgimento italiano dell’antichità classica il Filelfo fu esponente controverso ma senza dubbio di spicco, né si può dimenticare che i carmi contenuti nella Psychagogia – lo ricordano i due curatori – costituirono "il primo esempio cospicuo di versificazione greca ‘antica’ di età umanistica, anteriore sia pure di pochi anni ai ben più celebri epigrammi del Poliziano", e tali da esprimere "la fede di qualcuno per il quale quella lingua era insieme l’idioma di un glorioso passato e un vivo, praticato strumento di espressione". Sicché quei versi potranno essere letti come testimonianza dei molteplici legami che univano il Filelfo al mondo dei potenti e della cultura, da lui con tanta assiduità e ambizione frequentati; ma – forse meglio e con maggior profitto – dovranno essere valutati come manifestazione di un’erudizione formidabile, acquisita in lunghi anni di vita a Costantinopoli e presso le corti italiane. Donde un idioma originale, composito e poliedrico, a tratti assai spregiudicato, e pur sempre nel solco della continuità di un’esperienza letteraria greca capace di rinnovarsi con straordinaria forza di trasformazione e di adattamento sino a giungere dopo un lungo sviluppo, tramite Bisanzio e l’ellenismo cristiano, all’Umanesimo.

Non meno indicativa dello spirito della collana appare anche la scelta di proporre a lettori non necessariamente specialisti i Consigli, composti da Cecaumeno, nell’ultimo quarto del secolo XI, apparentemente per i figli ma in realtà per un pubblico più vasto, come dimostra in modo convincente Maria Dora Spadaro nell’introduzione al testo. L’opera di Cecaumeno si configura infatti quale strumento indispensabile per "individuare pregi e difetti della società" di quegli anni che – ricordiamolo – rappresentarono una svolta decisiva nelle vicende interne di Bisanzio, allora contrassegnate da un duplice e complementare processo di più estesa diffusione del sapere e di più ampio reclutamento della funzione pubblica. Dei dubbi e delle ansie suscitate negli intellettuali greci dall’intensità dei cambiamenti in corso, e della conseguente instabilità della società, Cecaumeno fu interprete singolare. Meno brillante certo di suoi contemporanei più illustri, quali Psello o Michele Attaleiata, ma non meno attento a cogliere sotto "una patina di disincanto e composto realismo" il senso di "precarietà e di incertezza" che accompagnavano un possibile processo di transizione verso la modernità, processo che peraltro non poté attuarsi per il sopraggiungere di inattese disfatte militari.

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Francesco Filelfo

(Tolentino, Macerata, 1398 - Firenze 1481) letterato italiano. Appreso il greco a Costantinopoli, insegnò a Firenze e poi a Pavia e a Milano. Polemista irriducibile e cortigiano spregiudicato, fu coinvolto in aspre lotte tra fazioni politiche e letterarie. Il suo merito principale è quello di aver contribuito a diffondere la cultura umanistica nell’ambiente lombardo. Tra le sue opere in latino si ricordano: le Satyrae (1448) e le Odae (postume, 1498), il poema incompiuto Sphortias (composto fra il 1450 e il 1473, in lode di Francesco Sforza e modellato sull’Iliade), lo zibaldone in distici De iocis et seriis (composto fra il 1458 e il 1465), il trattato De morali disciplina (cominciato nel 1473 e troncato dalla morte). Tradusse dal greco (Lisia), e in greco scrisse epigrammi ed epistole; in...

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