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Non si può mai tornare a casa, ha scritto il romanziere Thomas Wolfe nel suo libro del 1940 intitolato per l'appunto You can't go home again, intendendo con tali parole che tutto cambia: compresi il passato e i ricordi che di esso conserviamo. È un assunto, questo, più che mai attendibile nel caso di Bahaa Taher, se è vero che in una recente intervista a proposito del suo ritorno in Egitto nel 1995, dopo un lungo esilio autoimposto trascorso per gran parte in Svizzera, dichiarava: "Fu il ritorno a una realtà che io non conoscevo più. Che stentavo a riconoscere. Mi ci volle molto tempo per abituarmi". Amore in esilio è l'ultimo romanzo che l'autore egiziano (insignito recentemente del primo Arabic Booker Prize) scrisse durante l'esilio, e non sarebbe azzardato affermare che di quell'esperienza sia il testamento, un testamento che attesta una distanza incolmabile degli intellettuali egiziani e arabi dalla storia.
Protagonista del libro è un giornalista egiziano che ha vissuto con entusiasmo, seppur criticamente, la stagione nasseriana e che, a causa delle sue posizioni ideologiche, si è visto isolato durante il governo di Sadat, e dunque costretto a emigrare in un paese europeo, incoraggiato dalla disponibilità di un posto come corrispondente per il suo giornale.Ma sarà un lavoro che si dimostrerà né più né meno che un tentativo di mettere a tacere il giornalista, cui verrà affidata una rubrica nella quale si occuperà di costume più che di cronaca o politica. Sarà l'occasione di una conferenza sui diritti dei cileni e sulla tortura a riportare il protagonista alla storia, nonché a una coscienza di un passato pesante sul quale non potrà fare a meno di maturare una drastica autocritica.
Siamo nel 1982: il Medio Oriente è scosso da eventi nefasti, di cui l'occupazione israeliana del Libano insieme con il massacro nel campo profughi di Sabra e Shatila costituiscono un trauma tra i più difficili da metabolizzare. È davanti a questi fatti che il protagonista elabora la sua riflessione sulla condizione generale dell'intellettuale egiziano: se in esilio, impossibilitato all'azione e impotente; se in patria, isolato o costretto a collaborare, direttamente o meno, con il governo. Per dirla con le parole del protagonista: "In passato avevamo preso dimestichezza con le figure di uomini politici attraverso la mediazione dei poeti: ad esempio, grazie al poeta classico del X secolo al-Mutanabbi ci eravamo avvicinati all'emiro di Aleppo (
). Invece, al giorno d'oggi, nostra velleità è quella di conoscere il poeta tramite il politico. I cantori, noi li uccidiamo col silenzio e con l'oblio".
Occorre aggiungere che il protagonista vive la sua condizione di estraneità non soltanto rispetto alla storia: c'è un ulteriore motivo e sta nella sua difficile vicenda privata di divorziato, con una ex moglie che sembrerebbe aver abbandonato per sempre le battaglie comuni: quelle per i diritti degli egiziani e due figli, uno dei quali comincia a simpatizzare con i fondamentalisti islamici. Ma questo denso romanzo racconta anche una storia d'amore, quella del protagonista con una giovane donna austriaca, per un comune destino di lontananza e di estraneità, ma, per certi aspetti, anche di felicità. Non è un caso se abbiamo lasciato per ultimo questo tema, che, come invece suggerisce il titolo del libro, Amore in esilio, dovrebbe costituirne l'ossatura: a libro chiuso, infatti, ciò che resta al lettore è soltanto il disperato e costante tentativo del protagonista di misurare l'entità di quella distanza che lo separa dalle cose del mondo. Silvia Lutzoni
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