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Dall'Italia (1796-1798) - Gaspard Monge - copertina

Dettagli

1993
26 novembre 1993
295 p.
9788838909061

Voce della critica


recensione di Morello, P., L'Indice 1994, n. 6

Nel giugno 1796, Gaspard Monge arriva in Italia, quale membro della Commission pour la recherche des objets des Sciences et de l'Art. Negli stessi mesi, firmato con i Savoia l'armistizio di Cherasco, Bonaparte sbaraglia gli austriaci a Lodi e, presa Milano, dà assedio a Mantova. La Commission ha il compito di rendere esecutivi gli accordi presi con i duchi di Parma e di Modena, e quindi con il Papa e che autorizzano i francesi a prelevare un certo numero di libri e oggetti d'arte. Da una parte la campagna d'Italia, dal trattato di Bologna, giugno 1796, alla pace di Tolentino, febbraio 1797, i primi due trattati che prevedano ufficialmente la requisizione di opere d'arte come bottino di guerra; dall'altra, l'istituzione, a Parigi, del Musée d'Histoire Naturelle e del Musée des Arts, il Louvre e cioè il primo grande sistema di musei pubblici dell'età moderna. Questi i margini del viaggio di Monge.
La primavera 1796 è per Monge stagione di disincanto e di pericolo, dopo i moti sobillati da Babeuf e le repressioni antigiacobine. Da qualche tempo i rovesciamenti di fronte e l'instabilità politica tengono la sua vita sotto minaccia costante: ai semestri di insegnamento alterna periodi di carcere e di latitanza. Nato nel 1746, genio assai precoce, Monge, in Francia almeno, è più che una celebrità, per due ragioni differenti. Da una parte sta il grandissimo scienziato, il matematico e il fisico, l'amico di Condorcet e di Bossut, il collaboratore di Lavoisier, l'autore delle "Mémoires" presentate, negli anni settanta, all'Académie des Sciences di Parigi e alla Società Reale di Torino e, soprattutto, il fondatore della geometria descrittiva. Dall'altra sta il Monge giacobino e rivoluzionario, il ministro della Marina (1792-93), il segretario e poi vicepresidente della Société des Jacabins. Nel punto di intersezione delle due linee, sta l'impegno dedicato, dal 1794, alla costituzione di un'Ècole centrale des Travaux publics, che di lì a breve diverrà la celeberrima Ècole Polytechnique.
In un volume curato da Sandro Cardinali e Luigi Pepe, di Monge ora Sellerio pubblica le lettere dall'Italia quasi del tutto inedite, riunite in tre sezioni: le prime due raccolgono le lettere destinate alla moglie, Catherine Huart, durante il primo soggiorno (giugno 1796-ottobre 1797) e durante i preparativi e la prima parte del viaggio per la spedizione in Egitto (febbraio-giugno 1798); la terza sezione riunisce lettere ufficiali, indirizzate da Monge e dagli altri membri della Commission a Bonaparte, al ministro degli Esteri e ai membri del Direttorio.
Con Monge, la Commission è composta da due naturalisti, J. J. de la Billardière e A. Thouin; dal chimico C. L. Berthollet; dai pittori J. S. Berthélemy e J.P. Tinet; dallo scultore J. G. Moitte e dal violinista e compositore R. Kreutzer. A questi vengono aggiunti i pittori J. B. J. Wicar e A. J. Gros, allievo di David, e gli scultori J. Ch. Marin ed E. Gaulle. Pur operando in piena campagna di guerra, nessun membro della Commission è però ammesso a partecipare alle azioni militari. Uno speciale riguardo protegge Monge, in particolare, che non esita a dichiarare: "siamo i veri 'enfants gƒtés' della Repubblica". Non molto diversamente da Fabrizio Del Dongo, nella "Chartreuse de Parme" di Stendhal, Monge rimane estraneo agli avvenimenti che descrive, pur essendovi totalmente immerso; riceve differiti echi di notizie, di fatti accaduti a poche leghe di distanza, di sponda dalla stampa francese; vede i pennacchi di fumo e ode i boati di cannoni, della battaglia che si svolge lì presso, appena oltre il fiume, dall'alto di un campanile. Nel gennaio 1797, Monge e altri commissari si trovano nell'abbazia di San Benedetto in Polirone, vicino a Mantova, per prelevare manoscritti e opere d'arte; da qui scrive alla moglie: "Mentre attendevamo a questo compito, si stavano svolgendo, a poca distanza di noi, le battaglie del 25, 26 e 27 nevoso [rispettivamente, le battaglie di Rivoli, di Angiari e della Favorita], di cui a Parigi conoscerete l'esito sicuramente prima dell'arrivo di questa lettera,... distinguevamo benissimo i colpi di cannone e le fucilate, sia dei nostri che dei nemici, però nulla sapevamo dell'andamento dello scontro, perché nessuno ci portava notizie dall'altra sponda del Po...".
Attraverso il Moncenisio, Monge giunge a Torino e poi a Milano, ove ha inizio l'opera di requisizione; tra gli incunaboli e i manoscritti asportati dalla Biblioteca Ambrosiana, ne figurano una dozzina di Leonardo e due di Galileo, mentre quadri e altre opere d'arte vengono rastrellate nelle chiese e nelle pinacoteche. Da Milano, la Commission si muove per alcune ricognizioni in Lombardia; quindi raggiunge Bologna, ov'è ad attenderla un bottino ricchissimo di codici e dipinti, tra i quali la "Glorificazione di santa Cecilia" di Raffaello: "Si tratta di un'opera meravigliosa - scrive Monge - e ti confesso che, ad onta della santità, potrei facilmente innamorarmi della dolce Cecilia". Nuove ricognizioni (a Ferrara, Ravenna, Cento) fruttano dipinti di Lodovico Carracci e del Guercino. Nei dintorni di Roma, la campagna offre "uno spettacolo desolante: campi incolti, terre disabitate, completamente vive di villaggi e di case". La città stessa è in uno stato di abbrutimento e di prostrazione: Roma "non è che una mummia", scrive alla moglie. A Villa Albani, Monge viene colto da una forma - ante litteram - della "sindrome di Stendhal" ("Il gran numero di statue e di busti antichi, che quotidianamente abbiamo occasione di vedere, mi procura, quando giunge la sera, una sorta di stordimento..."). D'altra parte, in più d'una circostanza, Monge accusa la sua personale incompetenza, rispetto ai compiti che gli sono stati assegnati. I suoi commenti circa i quadri non vanno molto al di là dell'apprezzamento soggettivo; se la "Santa Cecilia" ha toccato il suo cuore, la "Lupa Capitolina" non è più che "una scultura di scarso valore" (e infatti non viene requisita). Spesso, i suoi giudizi vengono determinati da ragioni ideologiche; accingendosi a visitare il Campidoglio, ad esempio, scrive: "Pochissime sono le vestigia di età repubblicana che Roma conserva; la maggior parte dei monumenti più famosi sono stati costruiti in epoca imperiale e pertanto non riescono ad esercitare un gran fascino su di un repubblicano".
Due motivi ricorrono nelle lettere, con grande enfasi: l'amore per la Repubblica, uno spirito di servizio ostentato di continuo ("Per quello che ci compete, cercheremo di compiere fino in fondo il nostro dovere. Speriamo di tornar utili alla Repubblica e di riuscire a meritare il plauso dei suoi sostenitori"); e uno sfegatato antipapalismo ("A Berthollet è tornato il buonumore. Non vede l'ora di vendicarsi del Pontefice, del male che il papato ha fatto al genere umano da tempo ormai immemorabile..."). I due argomenti - fede repubblicana e astio anticlericale - concorrono nel legittimare la politica delle requisizioni, nel dimostrare come queste fossero qualcosa di più nobile che volgari furti. Invero, vi erano polemiche roventi contro la politica dei rastrellamenti. A Parigi, sostenuto da P. L. Roederer e da A. C. Quatremère de Quincy, si era sollevato un movimento di dissenso, culminato, nell'agosto 1796, in un documento sottoscritto da cinquanta artisti. Nel febbraio-marzo 1797, alcune lettere di Monge indirizzate al Direttorio vengono pubblicate dal quotidiano parigino "Le Rédacteur". In una di queste si raccontava come il generale del Papa, Colli, avesse trafugato dalla Santa Casa di Loreto gli oggetti più preziosi prima dell'arrivo dei francesi, disattendendo agli accordi stipulati. Contrariamente alla volontà dello stesso Monge (a quanto si evince da una lettera alla moglie), la sua corrispondenza ha dunque una circolazione pubblica e viene utilizzata per scopi, per così dire, di propaganda e di rafforzamento contro le opposizioni interne.
Nel complesso, partono dall'Italia cinque convogli di libri e opere d'arte. Il primo, radunato a Tortona, comprende tra l'altro la "Santa Cecilia" di Raffaello e il "San Gerolamo" del Correggio. Nella seconda spedizione, che lascia Roma l'11 maggio 1797, sono inclusi l'"Apollo del Belvedere" e il "Laocoonte". Anche questo convoglio, come il primo e i due successivi, è destinato a prendere il mare a Livorno o a Pisa, fino a Tolone o a Marsiglia, per risalire quindi via fiume verso Parigi. Il quinto carico, che avrebbe dovuto trasportare il "Nilo", il "Tevere" e l'"Atena di Velletri", insieme con altre sculture di gigantesche dimensioni, è temporaneamente trattenuto a Roma. Malgrado le attenzioni poste nell'imballo e nell'allestimento delle casse, di cui le lettere forniscono minuti resoconti, le difficoltà logistiche sono tali da destare in Monge ossessive preoccupazioni; il rischio che i dipinti, arrotolati gli uni sugli altri, possano subire danni, venire rubati durante il viaggio o deteriorati dalle intemperie, è comunque altissimo: "Eventuali perdite sarebbero irreparabili e la Francia ne porterebbe la responsabilità di fronte al mondo intero", scrivono i commissari, non immemori del dissenso degli oppositori.
Trainati da schiere interminabili di buoi e di bufali, i convogli dovevano rappresentare uno spettacolo trionfale. Monge scrive alla moglie che "questi animali dalle immense corna, assieme a una mezza dozzina di cammelli fornitici dal Granduca di Toscana" avrebbero aperto il convoglio, "conferendogli un aspetto singolare e maestoso"; e in un'altra lettera: "Quando tutto ciò che attualmente si trova nei depositi di Roma, Livorno, Genova e Tolone verrà indirizzato a Parigi, formerà un convoglio di circa cento carri, carichi di un vario e preziosissimo bottino. Per quanto aristocratica sia Parigi, per quanto abbia in odio l'uguaglianza, quali che siano la sua superstizione, la sua ignoranza, la sua meschinità, i suoi rimpianti vaghi per la schiavitù... se non sarà divenuta del tutto insensibile ai sentimenti della gloria, e se, per quanto in basso sia caduta, saprà ancora levare in alto il capo, il suo cuore palpiterà e accorrerà in massa ad ammirare il maestoso corteo dei trofei dei repubblicani che hanno combattuto in Italia, senza i quali esso avrebbe ornato il trionfo dei nostri nemici, cioè dei nemici dell'umanità". Il 27 e il 28 luglio 1798 sfila in trionfo a Parigi l'ultimo convoglio di statue antiche, quelle dei Musei Vaticani e i "Cavalli di San Marco"; la coreografia è di Thouin, erede del grande David nella regia delle feste rivoluzionarie. La Grande Galerie del Louvre fa da cornice ai festeggiamenti ufficiali, non diversamente dagli alberi della libertà, dagl'inni rivoluzionari, dai balli, dai concerti di Kreutzer che fanno da sfondo alle feste per una battaglia vittoriosa o per la stipula di un trattato di pace. Una musica per occasioni particolari: una festa popolare, l'esposizione al pubblico delle sculture requisite. La mostra come festa - un'eguaglianza di enorme portata, nella storia della gestione delle masse e dei rituali collettivi.

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