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Da Darwin al comportamentismo
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1986
544 p.
9788820447533

Voce della critica


recensione di Alleva, En., L'Indice 1986, n. 7

Raramente un testo scientifico riesce a essere contemporaneamente "enciclopedico" e di lettura piacevole. Quest'ultimo volume, dello psicologo comparato americano Robert Boakes, riesce a essere anche qualcosa di più: una storia compendiata della psicologia sperimentale, raccontata a toni vivaci collezionando brillantemente aneddoti, biografie, risultati sperimentali e progressi metodologici della psicologia cosiddetta obbiettiva.
Dopo una succinta, ma completa, panoramica sugli stadi primordiali della psicologia evoluzionistica - che parte dall'emerito duo Darwin - Huxley per arrivare a Francis Galton, passando attraverso George Romanes e Lloyd Morgan - Boakes si sofferma sui primi tentativi storici di una psicologia che, per tramutarsi in disciplina scientifica, deve autogenerare una (almeno apparentemente) solida base metodologica. Siamo alla fine del 1800, e Edward Thorndike, figlio di un prete metodista, serio e diligente studente della Harvard University, si prepara a sostenere l'esame per conseguire il proprio dottorato: le gabbie che Thorndike disegna per valutare il progressivo livello di apprendimento a uscire da esse di quattro gatti, assieme al primo grafico che riporta i progressi di queste quattro evasioni feline, sono allo stesso tempo un documento storico di rilevanza più che notevole, e un enorme salto metodologico per la psicologia scientifica, - forse addirittura l'avanzamento storico di maggiore rilevanza.
Boakes si addentra poi a compendiare uno dei periodi più difficili dello psicologismo scientifico, quello che per esempio vede una dotta commissione di scienziati europei beffata in pieno da un cavallo, a ragione chiamato Hans "l'intelligente". (La storia di Clever Hans racconta che il cavallo, apparentemente in grado di risolvere calcoli matematici semplici e complessi rispondendo ai quesiti a colpi di zoccolo, era in grado di percepire la tensione del suo addestratore o degli astanti che si sviluppava nel momento in cui la zampa raggiungeva, a forza di colpi, il risultato corretto. L'animale scalpitava a stancarsi di fronte ad un pubblico all'oscuro del risultato). È solo grazie ai dubbi di un altro oscuro studentello - Oscar Pfungst - e soprattutto grazie agli accorti esperimenti che Pfungst riesce ad architettare, che l'intelligenza umana riesce finalmente a trionfare su quella equina, dimostrando insindacabilmente che un cavallo non può compiere complessi calcoli matematici. Ma, soprattutto, dimostrando che appropriati esperimenti, condotti in condizioni controllate, possono dimostrare ciò che una darwiniana intuizione, per quanto sagace e competente essa sia, mai potrà fare completamente: e cioè, verificare un'ipotesi di partenza attraverso i risultati di un esperimento condotto con criteri di assoluto rigore metodologico. A dieci lustri quasi di distanza, resta tuttora questo il problema principale della psicologia scientifica, e tuttora attuale, anzi attualissimo, è il dibattito tra cultori di scienze naturali e psicologi (soprattutto psicologi comparati). E non può certo dire che si è vicini a un accordo metodologico; probabilmente cento anni di vite (scientifiche) trascorse a spiarsi vicendevolmente con un misto di derisione e di sospetto hanno definitivamente allontanato gli studiosi della mente umana da quelli che eminentemente si occupano di comportamento animale.
Di tutto ciò c'è ampia traccia nel libro. Lì dove le varie predizioni teoriche (l'animale-macchina di Julien Offray de la Mettrie, l'energia nervosa di Robert Whytt, la creatrice "forza vitale" di Johannes Mueller, il modello d'inibizione di Ivan Sechenov, ecc.) si scontrano con le realtà fenomenologiche dei fatti naturali, e così diventano motivo di battaglia per le idee scientifiche. Nel dipingere il succedersi delle varie scuole scientifiche, nel narrare delle tradizioni locali, nel tratteggiare le scuole come manipoli di allievi stretti attorno alle idee di pochi, eminenti, maestri, nello svelare vivacemente il sottile tessuto d'ideali e di idee che si ramificano per affiliazioni e per discussioni: in questo, il volume di Boakes è un piccolo capolavoro.
Particolarmente riuscito è il capitolo su Pavlov. Ivan P. Pavlov è il fortunato figlio di un parroco russo, che frequenta una (scientificamente) vivace e progressista scuola religiosa, anziché una bigotta e oscurantista scuola statale zarista. Pavlov è il fortunato bambino che, caduto da un muro all'età di nove anni, trascorre i due successivi rinchiuso in un monastero presso Ryazan, custodito dal nonno abate. Fortunatissimo nel senso che lì acquista il monastico stile di vita che ne farà uno scienziato dedicato ossessivamente alla fede scientifica, incurante di tutto ciò che rappresenta bene terreno (ivi inclusa sua moglie), amatissimo dagli studenti e odiato da rettori e direttori. Il suo stile ispirato e spartano ne farà una delle menti-cardine della psicologia scientifica. Pavlov, l'eroe del lavoro Pavlov, che fa la fame accumulando incarichi onorifici e la stima di generazioni di uomini di scienza. Boakes è maestro nell'imperniare la propria analisi storica su questi uomini-vettori di idee, utilizzandoli utilmente come pietre miliari di un immaginano percorso che la psicologia fisiologica e quella comparata percorrono, con tutte le tortuosità e le faticose salite del caso.
Poco meno di metà del volume è di seguito dedicata a trattare - in forma estesa, e senza dubbio con tratti di profonda originalità - di quella branca della psicologia comparata che viene generalmente compresa sotto l'etichetta di behaviorismo, o comportamentismo. Questa lunga sezione del libro è senza dubbio la parte più importante, e la più interessante: comprende una multiforme rassegna delle idee antifunzionaliste del suo vate, John Watson, di come usi (e abusi) dell'analisi dei processi psicologici e delle potenzialità pedagogiche e cliniche della psicologia comparata, e include una rassegna più che eloquente di tutti i mezzi sperimentali che il comportamentismo ha architettato per valutare le prestazioni cognitive del suo modello animale per antonomasia: il ratto albino. Il lettore vi troverà illustrati e raccontati con inimmaginabile vividezza "trappole sperimentali" arcinote agli specialisti quali la Stewart's Activity Wheel (per misurare l'attività locomotoria spontanea del ratto), o le molteplici apparecchiature per misurare la murina intelligenza.
Il comportamentismo è presentato a partire dalle proprie radici storico-culturali. Un posto di notevole rilevanza viene attribuito - meritatamente - a Jacques Loeb, un medico tedesco che all'epoca delle eccitanti scoperte sulla vita di relazione di organismi, che più che inferiori verrebbe da definire infimi (quali quelli stupefacentemente rivelati dai primi microscopi a disposizione dei ricercatori), si dedicò con competenza e passione al comportamento di amebe e parameci. Loeb tradì in pieno le tradizioni della scuola berlinese di psicologia animale, che preferiva studiare cavalli anziché protozoi. Fu questa, forse, una delle ragioni che spinsero Loeb a spostarsi presso l'università di Chicago, che presto fiorì come uno dei centri propulsori delle nuove dottrine comparatiste e che, fin in tempi recenti, ha risentito di questo fervido periodo di ricerche e di discussioni, appunto iniziato al principio del secolo. È lì che si sviluppò il famosissimo Laboratorio di psicologia, inserito nel dipartimento di filosofia cui facevano capo Donaldson, Dewey, e Mead. Ed è allora che il poverissimo studente Watson, vice-portiere per bisogna, iniziò la propria carriera di comportamentista, pulendo sterco di ratto fin quando una meritata borsa di studio gli diede ufficialmente accesso all'empireo degli uomini di scienza.
Del comportamentismo originale watsoniano Boakes traccia un'immagine vivida, che ne delucida meriti e originalità. Ma quando la trattazione si sposta a descriverne i limiti c'è senza dubbio un'analisi più ristretta, o per lo meno meno accorta. Nel tratteggiare la caduta del behaviorismo di stampo watsoniano, cioè una rapida tendenza a perdere
consensi del credo comportamentista iniziale, stretto fra le critiche di una completa assenza di verosimili basi fisiologiche dei fenomeni psichici che esso propagandava e la ben più radicale critica dell'emergente Zing Yang Kuo, che alcune delle affermazioni dei comportamentisti fossero soltanto posizioni animiste mascherate, Boakes assume una posizione che da molti addetti ai lavori è stata considerata parziale. Parzialità che diviene più manifesta - addirittura - quando Boakes tratteggia lo stadio successivo del behaviorismo watsoniano, quello che Boakes, affatto velatamente, presenta come una degenerazione ortodossa di un fenomeno sostanzialmente differente alle sue origini. Le tesi di Boakes a questo proposito sono confuse: il behaviorismo appare, nella sua descrizione, troppo povero (finanziariamente) per andare avanti, oltre che troppo discutibile, come disciplina scientifica in un mondo scientifico che progredisce in conoscenze fisiologiche ed evoluzionistiche. Quindi il successore arcinoto di Watson - il behaviorista B.F. Skinner - viene semplicemente presentato come quell'allievo che supera il maestro nel presentare il behaviorismo come una disciplina dell'ambito psicologico tale da poter risolvere alcuni dei pressanti problemi della società americana di allora; ottenendo così fondi, simpatie, e una resurrezione di un capitolando comportamentismo.
In questa presentazione, che a voler essere maligni potrebbe essere criticata come una visione (sciovinisticamente) americanizzante della storia della psicologia comparata, risiede il limite principale di quest'opera: che' da questo punto di vista, risulta palesemente di parte. Certamente assieme al behaviorismo esistevano coeve scuole europee che si occupavano - e con profitto - dello studio comparativo del comportamento animale. Del notissimo ornitologo Oskar Heinroth -direttore dello zoo di Berlino- eminente studioso di colombi e padre spirituale dell'etologo Konrad Lorenz, c'è traccia solo per quanto riguarda l'affaire del cavallo superdotato Clever Hans. Con tutte le giustificatissime critiche che l'etologia europea ha raccolto dopo i premi Nobel del 1973 - o anche prima di essi - una certa corrente di matrice eminentemente zoologica ha fornito spunti essenziali all'analisi filogenetica del comportamento animale. Di essa, ma soprattutto delle sue radici, nel libro di Boakes non v'è traccia. Jean Henri Fabre, o Julian Huxley, personaggi fondamentali per giudicare oggi (e ieri) il comportamentismo sono pudicamente ignorati da questo libro: che così resta un'opera eminentemente incompleta.
La versione italiana del volume inglese - purtroppo - ha una grave limitazione: le illustrazioni del volume originale sono state letteralmente decimate, e secondo un criterio che appare perlomeno curioso. Quindi al lettore italiano viene negato il piacere di osservare l'atteggiamento attonito del maiale che Verkes ha posto di fronte a un complicato test di apprendimento, come il paterno sorriso dello stesso Yerkes che porta in braccio due baby-scimpanzé. È un vero peccato vedere il volume italiano straziato del sardonico sorriso di Karl Lashley, grande inventore di labirinti per ratti, o la meravigliosa fotografia che riproduce una lezione di Pavlov, iconografia rara di tanta attenta dedizione del pubblico di studenti. Questa opera ha il grande merito di fornire una visione eccezionalmente personalizzata dei singoli personaggi che si muovono sulle scene della psicologia, e la scomparsa nella versione italiana delle loro fotografie, raccolte con tanta cura dal team dell'autore è un genuino delitto di inoclastia.

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