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La prima voce di una trinità letteraria che è fuoco allo stato puro, nella certezza che se c'è un autore che ha raccolto da Dante il testimone per entrare a occhi aperti nell'Inferno, questo è Celine. Disperazioni e addii, carestia e fuliggine, un quadro intriso anche degli strazi comici in cui l'umano si perde e dove è già sublime l'elogio di Caronte che, dalla sua barca, inizia a randellare senza riguardi i nemici di chi scrive: "..l'imbarco per l'oltrelà...delizia di turisti...vrang!...brang!...da un'orecchia all'altra...un sacco di persone molto danarose con montagne di branchi di pezzenti alla rinfusa...!". Siamo in una fuga, quattro persone (gatto incluso) che scappano verso la Germania per salvarsi dall'accusa di collaborazionismo con Vichy. Stazioni del loro andare scandite da immagini e descrizioni che si imprimono nella mente per sempre, in una lingua che solo Monsieur Destouches ha saputo inventare e declinare come davvero nessuno: "...camaleonteria inzuppata...farandole di impiccati...leccarde terribili...croste di cloaca...suini da concorso". E questo è appena un impossibile accenno al divorante corteo di pusillanimi, di opportunisti, di atroci caratteri e gentaccia orrida che l'estremo degli eventi mette sotto i loro occhi. Di tutto, l'alfa e l'omega di una Giudecca realmente esistita, fra stenti, fame che lacera, menzogna corrente, bisogno e lacrime, allucinazioni e bestemmie: "L'essenziale...con le persone svitate...mai urtarle in niente...far tutto come se è ovvio". Gli episodi si perdono in una "babeleria" gigantesca; scene di folle perdute ai limiti di una ferocia animalesca, fasullerie diffuse, falsità e doppi giochi ormai scoperti oltre ogni scorcio di vergogna, uno spettacolo breugheliano che mostra il suo straziante luridume. Un disordine toccato passo dopo passo in una sintassi che sciocca e che avvinghia per la sua poetica grandezza, l'innesco di un evento in carne ed ossa nel Novecento intero. Uno dei libri della vita, e della non vita.
Leggere Céline, in francese naturalmente, è sempre molto affascinante e complesso. Personalmente ho bisogno di almeno 100/150 pagine per entrare nel ritmo giusto, ma una volta che si è aperta quella porta mi si spalanca un mondo che solo con lui riesco a vedere. Ironia dissacrante sparsa in tutto il libro, che se possibile rende ancora più duro e crudo il racconto della vicenda. Linguaggio che passa dalla trivialità alle alte vette con facilità incredibile e maestria eccezionale nella padronanza della tecnica narrativa. Le scene delle alte gerarchie di Vichy a Siegmaringen, di Petain e Laval in mezzo agli altri rifugiati nell'enclave danese hanno un che di grottesco ed al tempo stesso allucinante. Le descrizioni delle code al gabinetto proprio davanti la stanza di Céline fanno rotolare dalle risate. I suoi spostamenti con l'immancabile gatto Bébert e la sua Lili sono tenerissime. Le scene alla stazione, isteriche e crudeli, la corruzione imperante anche in quel minuscolo enclave, la volgarità di alcuni personaggi fanno di questo libro, secondo me, un geniale affresco di un periodo della nostra storia. Ed ora mi accingo alla lettura del secondo libro della trilogia.
Il periodo passato da Cèline a Sigmaringen (paese tedesco dove nel 44 trovarono rifugio i collaborazionisti francesi) viene ricordato tra rievocazioni storiche ed esilaranti episodi che sfiorano il grottesco. Lo sguardo cinico e pessimista di Cèline permette di avere un affresco che non risparmia nessuno, tra gerarchi messi alla berlina e personaggi dotati di comicità involontaria si assiste ad episodi ilari che rendono piacevole la lettura di un romanzo che presenta un frammento della seconda guerra mondiale dall'ottica dei vinti.
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