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Dettagli

1998
15 maggio 1998
120 p.
9788836804917

Valutazioni e recensioni

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Nicola Sartorello
Recensioni: 3/5

Due segreti: quello non custodito, che porterà forse al fallimento di una cospirazione antifranchista, e quello ben custodito della propria debolezza di carattere, che farà del protagonista un predestinato di una vita non vissuta. Sotto il calore assolato di una Madrid opprimente ed inebriante, l'ombra della clandestinità affranca dal sonno politico della città di provincia. Attraverso la violenza latente dello stato di polizia, la narrazione asciutta ci coinvolge nel percorso formativo del giovane scrittore, cui si oppone l'irresponsabile virilità dell'amico operaio. Incisivo, autobiografico, pervaso di un continuo senso di inadeguatezza.

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recensione di Nicola, M., L'Indice 1998, n.11

Libro plumbeo, oppressivo, notturno, come promette la sua copertina bagnata di luce lunare - un enigmatico e terribile bozzetto diGoya che accompagnava anche l'edizione spagnola -, "Plenilunio" è un'opera ambiziosa che oscilla fra modelli narrativi in difficile convivenza fra loro. L'attacco - "Giorno e notte si aggirava per la città alla ricerca di uno sguardo" - rievoca l'ossessivo vagare di personaggi insonni che percorreva i primi libri di Muñoz Molina, calandoci questa volta nel vivo di un'indagine poliziesca. Ricordiamo i due romanzi dell'autore usciti precedentemente in Italia: nel 1995 Feltrinelli proponeva il suo primo best-seller spagnolo: "L'inverno a Lisbona" (ed. orig. 1987), storia di maledettismo nell'ambiente del jazz, quando già nel 1992 Einaudi aveva inserito nei "Nuovi Coralli" "Beltenebros" (ed. orig. 1989), labirintico omaggio al cinema spionistico anni quaranta.
Dieci anni dopo, "Plenilunio "ambisce a trascendere la struttura del "giallo" per offrirsi come libro sulla condizione umana. Muñoz Molina, nel frattempo, continua a veder confermato il suo successo e a mietere premi. A poco più di quarant'anni membro della Real Academia, la più prestigiosa istituzione delle lettere iberiche, è considerato uno dei valori consolidati della letteratura spagnola e, grazie alla sua brillante pagina sull'inserto illustrato del "Pais", da cui commenta fatti della cultura e del costume, è ormai un personaggio familiare al grande pubblico.
Nel 1997, dunque proprio l'anno successivo all'esplosione del famigerato caso dei pedofili belgi, Muñoz Molina si accosta al tema del serial killer e della violenza sessuale sui bambini con un romanzo poliziesco ambientato in una città dell'Andalusia.Niente di più classico: un ispettore di polizia, una vittima di nove anni - cui se ne aggiungerà una seconda nel corso del racconto -, un assassino, il consueto scioglimento dell'enigma. Se non fosse che l'ispettore, da poco trasferito da Bilbao, dove ha visto morire decine di colleghi sotto i colpi dei terroristi, si porta addosso un antico fardello di colpe, e un'impenetrabile armatura di difese, da cui faticosamente si libererà nel corso della vicenda. Ed è questa in realtà la storia che viene raccontata.
Va detto subito, ed è uno dei pregi del libro, che qui il lettore non troverà traccia dell'Andalusia profonda di García Lorca. La città fredda e piovosa dove per mesi l'ispettore e l'assassino vagano senza incontrarsi potrebbe essere una delle tante località italiane che affiorano dagli schermi televisivi nelle trasmissioni di "Chi l'ha visto?" o nei servizi del telegiornale. Strade tutte uguali, auto parcheggiate sui marciapiedi, giardini pubblici devastati. I personaggi, che vivono in condomini modesti, con citofono e ascensore, si assiepano in piccoli tinelli col televisore sempre acceso e la tovaglia di tela cerata. Insomma, il delitto avviene in un mondo normale. E questa normalità dimessa proietta una luce grigia anche sul delitto, rendendolo rivoltante nella miseria dei suoi dettagli pratici, come le mutandine cacciate in gola alla piccola vittima per impedirle di urlare. L'assoluta mancanza di spettacolarità del crimine è un tema che ritorna spesso negli scritti giornalistici di Muñoz Molina, soprattutto in relazione al terrorismo, ed è verosimile che proprio la preoccupazione di non offrire alcun "spettacolo" abbia determinato la patina di dolente bruttezza che pare stendersi uniforme su questo libro.
Anche qui, come nei romanzi di Patricia Cornwell, vengono descritte punto per punto le operazioni condotte al ritrovamento del cadavere, così come i gesti compiuti dall'assassino nel commettere il secondo delitto. Ma nessuna dottoressa Scarpetta ci rassicura con il suo meticoloso distacco. Anzi, il dottor Ferreras, medico di provincia dal passato anarchico e intellettuale, esegue l'autopsia interrogandosi sull'anima, come in un atto di pietà, e ammette di sentirsi come quel "russo lanciato nello spazio, che al ritorno disse di non aver visto Dio da nessuna parte". A guardar bene, l'anima non esiste.
Ma riprendiamo dall'"incipit": "L'ispettore cercava lo sguardo di chi avesse visto qualcosa di troppo mostruoso perché l'oblio potesse cancellarlo". E poi: "Probabilmente si trattava dello sguardo di uno sconosciuto, ma l'ispettore era certo che l'avrebbe identificato senza alcun dubbio né possibilità di errore nell'attimo in cui i suoi occhi l'avessero incrociato, anche solo una volta, da lontano, dall'altro lato della strada, dietro i vetri di un bar". Parole come queste non possono che suscitare dubbi nel lettore di gialli. E giustamente, perché qui sul racconto poliziesco s'innesta un'altra storia, che trascende il piano razionale e impone un deciso superamento dell'impianto di genere. Si tratta della storia di un uomo che confrontandosi col male dentro e fuori di sé impara faticosamente a riconoscere le "ragioni del cuore". Una storia che comincia dinanzi al cadavere della bambina seviziata, quando per la pri-ma volta il protagonista è profondamente scosso da un'emozione - "soffrire, soffrire davvero per qualcuno, soffrire come se mi avessero strappato qualcosa, come se mi avessero amputato un braccio senza anestesia, l'ho provato soltanto quella volta" -, e procede intrecciandosi con la vicenda poliziesca, amplificandola a tratti, e a tratti staccandosene, fino a diventare il filo principale del romanzo. Tanto da esigere un finale a parte, al di là dello scioglimento dell'enigma, nonché ampio spazio per fatti, personaggi e riflessioni utili allo sviluppo interiore del protagonista ma assai labilmente connessi con il nucleo narrativo dell'indagine. Al punto di dare l'impressione che il racconto poliziesco sia funzionale alla vicenda dell'ispettore, e non viceversa. Come se tutto fosse stato messo lì apposta per scandagliare ogni piega del personaggio e per accompagnare la sua crescita, sul filo di quel vagabondare tanto amato dai tristi abitatori dei libri di Muñoz Molina.
Letta in questo modo la storia diventa una sorta di parabola sulla vita autentica, sentita, umana, contro la vita inauntentica, cieca, bestiale, della quale ispettore e assassino rappresentano due facce complementari. Solo che mentre il primo riesce a contenere la propria bestialità e a superare la cecità grazie all'aiuto di una donna, il secondo vi si abbandona fino alle conseguenze più estreme: il delitto. Per di più ai danni di un'innocente. E a ben vedere la pedofilia come perversione c'entra poco con questa storia, in cui solo il caso, unito alla vigliaccheria, conduce l'assassino a scegliere come vittime delle bambine. Ma c'entra poco soprattutto perché qui l'obiettivo non è tanto esplorare il lato oscuro della sessualità, quanto mostrare a quali abissi conduce la sordità ai sentimenti. E la lezione è chiara: posto che assassino e ispettore temono più di ogni altra cosa di sentirsi deboli in un mondo percepito come ostile, dei due solo quello che riuscirà ad accettare la propria debolezza potrà avere la meglio. Sarà un caso che tutti i rapporti sessuali cui si fa cenno nel libro siano all'insegna della "défaillance"? E sarà un caso che l'intuizione che porterà allo scioglimento dell'enigma avvenga su un piano del tutto irrazionale, all'interno di un universo percettivo di cui l'ispettore fino ad allora ignorava l'esistenza?
E così, mentre protagonista e antagonista si rispecchiano a vicenda, agli altri personaggi, portatori di valori quali l'amore, la pietà, la dignità, l'innocenza, è affidata una funzione ancor più didascalica, in un universo manicheo che pone da una parte la televisione, dall'altra i libri e la musica; da una parte l'alcolismo, dall'altra il gusto per i buoni vini; da una parte, infine - e gli esempi potrebbero essere moltissimi -, l'abolizione del passato, dall'altra la conservazione della memoria, in un affastellamento di luoghi comuni e buoni sentimenti che finisce per essere uno stucchevole prontuario della vita autentica.
Non occorre leggere molte pagine per capire che questo, più che un poliziesco, è un libro che parla di morale e di buoni sentimenti, seppur modernamente intesi, e nemmeno per rimpiangere i libri di Muñoz Molina scettico e distaccato che abbandonava le sue creature ai loro labirinti mentali, ai loro stupori alcolici e alla topografia astratta di città più immaginate che reali. In quello straniamento vi era un mistero più grande, un'attesa, uno smarrimento metafisico che poteva forse alludere alle stesse domande sull'anima o sull'esistenza, ma non arrivava pienamente a formularle. Né pretendeva di trovarvi delle risposte.
Vale la pena ricordare che in questi mesi è in libreria, piccolo ma più risolto, un altro libro di Muñoz Molina, uscito in Spagna tre anni prima di "Plenilunio". Cupo e notturno "Bildungsroman "alla rovescia, "Il custode del segreto" getta uno sguardo impietoso sui primi anni settanta, sui mesi angosciosi e febbrili che precedettero la morte di Franco, invitando a un bilancio dei primi vent'anni di democrazia. Eroico esercizio di umiltà da parte dell'autore quello di proiettare tanti elementi autobiografici su un personaggio negativo come l'io narrante: un Raskolnikov affamato e pusillanime, un Arturo Bandini inetto e dalle ambizioni modeste, diciottenne di provincia perso nei sogni rivoluzionari di una Madrid attanagliata dalla polizia. La storia è quella di un tradimento, argomento caro all'autore - si pensi soprattutto a "Beltenebros", ma anche a "Plenilunio" -, che qui si fa metafora delle colpe e delle speranze tradite non solo di una generazione, ma anche di un paese.

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(Úbeda, Jaén, 1956) scrittore spagnolo, creatore di opere e di personaggi che si muovono spesso sullo sfondo della storia spagnola, fra spunti polizieschi e cinema noir. Con Beatus ille, suo primo romanzo (1986), ha creato la città immaginaria di Mágina, luogo in cui ambienterà opere successive (come Il cavaliere polacco, El jinete polaco, 1991, nt) e nel quale getta lo sguardo sulla provincia spagnola. Madrid fa invece da sfondo a opere come Beltenebros (1989, poliziesco che mescola amore, politica e suggestioni cinematografiche) o I misteri di Madrid (Los misterios de Madrid, 1992) e, in parte, nell’Inverno a Lisbona (El invierno en Lisboa, 1987). La grande capacità di costruire complesse trame narrative (spesso «a orologeria») e di mescolare scrittura biografica e proiezione storica, il...

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