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La cultura giuridica nell'Italia del Novecento - Luigi Ferrajoli - copertina
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La cultura giuridica nell'Italia del Novecento - Luigi Ferrajoli - copertina

Descrizione


Il contributo dato dalla cultura giuridica alla costruzione dello Stato italiano e alla formazione delle classi dirigenti.
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Dettagli

1999
19 febbraio 1999
Libro tecnico professionale
128 p.
9788842057000

Voce della critica


recensioni di Barberis, M. L'Indice del 1999, n. 10

Luigi Ferrajoli muove da una convinzione precisa, che informa tutta la sua produzione dottrinale: il giurista esercita tanto più potere quanto più rimane invisibile; il modo migliore per limitarne il potere, dunque, è proprio quello di renderlo visibile, di sottoporlo alla critica e al controllo democratico. Questa convinzione che, con etichetta oggi quasi desueta, potrebbe qualificarsi come neo-illuministica, non ispira solo i lavori più teorici di Ferrajoli: come quel Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (Laterza, 1989), che ha fatto dell’autore uno dei filosofi del diritto italiani più noti anche all’estero. La stessa convinzione, e lo stesso progetto, ispira anche i lavori (più) storici di Ferrajoli, e in particolare questo La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, che raccoglie opportunamente due contributi recenti: il Saggio sulla cultura giuridica italiana del Novecento (1996) e La filosofia giuridica analitica italiana. Bilancio e prospettive (1997, 1998).

L’ipotesi intorno alla quale ruota il Saggio del 1996, che occupa gran parte del volume, è appunto questa: nel Novecento italiano, la cultura dei giuristi ha potuto svolgere un ruolo politico importante, e forse centrale, proprio sostenendo quelle dottrine dell’a-politicità del diritto e della scienza giuridica che sembrano fatte apposta per occultare tale ruolo. Entrambe le dottrine, fra le più importanti conseguenze dell’importazione in Italia dalla Germania del cosiddetto metodo giuridico, hanno permesso fra l’altro ai giuristi italiani, da un lato, di assistere impassibili alla sostituzione dello Stato liberale con quello fascista, e, dall’altro, di ritagliarsi entro quest’ultimo preziosi spazi di autonomia.

In seguito, l’idea dell’autonomia del giuridico dalla politica – idea nella quale si possono riassumere le due dottrine appena menzionate – ha permesso ai giuristi italiani di assorbire senza troppe scosse anche la più importante novità politica del Novecento: quella Costituzione repubblicana del 1948 che Ferrajoli considera giustamente prodotta dal "dibattito istituzionale (…) più alto della nostra storia". La stessa idea dell’autonomia del giuridico entra poi in una crisi apparentemente irreversibile nella seconda metà degli anni sessanta, anche grazie all’opera di quegli stessi giuristi (i Rodotà, i Giugni, gli Amato: quest’ultimo peraltro ignorato da Ferrajoli) che la crisi istituzionale dei tardi anni ottanta proietterà sul palcoscenico politico.

La definitiva rottura con le dottrine dell’apoliticità del diritto e della scienza giuridica, se non con l’idea dell’autonomia del giuridico, è segnata dall’affermarsi del neocostituzionalismo: la dottrina giuridico-politica, fatta propria da Ferrajoli, che riconosce validità al diritto solo sulla base della conformità di questo ai princìpi costituzionali, e che "affida alla scienza giuridica una funzione critica nei riguardi del diritto vigente invalido e di progettazione del diritto valido". La stessa opzione neo-illuministica e neo-costituzionalistica, del resto, informa anche il secondo contributo raccolto nel volume, nel quale Ferrajoli traccia un bilancio di quella filosofia analitica del diritto, inaugurata da Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli sin dalla fine degli anni quaranta, che ha davvero portato una ventata d’aria fresca fra i giuristi e anche fra i filosofi italiani.

Di fronte a un lavoro di questa levatura, che riesce a compendiare in un centinaio di pagine l’essenziale della nostra storia giuridico-politica recente, ogni obiezione rischia di apparire pretenziosa e stucchevole. Ci si può chiedere, peraltro, se il rifiuto, da parte di Ferrajoli, della vecchia idea dell’autonomia del giuridico sia del tutto compatibile con le sue opzioni politiche. Ferrajoli – e la sua stessa adesione al neocostituzionalismo lo dimostra – prova un giustificato orrore per quella "onnipotenza della maggioranza" che, nel panorama delle ideologie contemporanee, si è inopinatamente coniugata con la "sregolatezza del mercato"; di più, uno dei motivi più condivisibili della sua rivalutazione della Costituzione del 1948 è relativo proprio al "sistema di limiti e di contrappesi" disegnato da questa.

Ma allora, perché non considerare esplicitamente i giuristi uno dei possibili contrappesi all’onnipotenza della maggioranza, e alle derive plebiscitarie che questa può comportare? Perché, per amore della trasparenza democratica, abbandonare un’autonomia del giuridico che ha già evitato una volta al paese, durante il fascismo, l’imbarbarimento del diritto? Forse il giurista invisibile non ha del tutto esaurito le sue funzioni.

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