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Il testo della storica dell'arte veneziana Elena Scantamburlo descrive e commenta con efficacia un fenomeno onnipresente a Cuba: dipinti e scritte su muri, steccati e cartelloni, di grande impatto propagandistico. Ne rintraccia gli influssi, dalla tradizione locale delle insegne alla scuola dei muralisti messicani, dalla grafica sovietica (e poi quella cilena dei primi anni settanta) alla pop art. E racconta la difficile convivenza della creatività con la gabbia di controllo del partito unico, cui interessa una pubblicità ideologica a basso costo ed eseguibile capillarmente sul territorio.
Se nell'epoca d'oro, a fine anni sessanta, non mancarono la sperimentazione formale e una certa vivacità satirica, oggi le pitture murali (eseguite con pennelli e rullo, giacché gli spray sono costosi o irreperibili) stentano ad arrivare a esiti artisticamente apprezzabili. Tra le poche eccezioni, le opere del gruppo Camaleón. Lo slancio storicamente più significativo fu quello del gruppo d'avanguardia Arte Calle, che nella seconda metà degli anni ottanta si riappropriò della strada con performance nelle piazze, invase asfalto e intonaco. Ma l'esempio non prosperò. Con la penuria della crisi economico-sociale degli anni novanta e la ricentralizzazione del nuovo millennio, si è tornati a gestire le sgargianti parole d'ordine come paraocchi consolatori e autocelebrazione sempre più lisa, mentre langue la satira dettata dall'alto. Per dare un senso a una realtà durissima, bisogna riportare costantemente il popolo all'interno dell'univoca epopea rivoluzionaria: "L'obiettivo primo e ufficiale di questo vero e proprio bombardamento segnico e cromatico è il non creare una distanza oggettivante e statica tra l'oggi e quei giorni: la scrittura murale, mezzo espressivo certo effimero, ma capace altresì di suggerire una lunga durata, diviene così, nella volontà statuale, una pratica tesa a promuovere una sorta di rito apotropaico (fors'anche funebre) mediante il quale la società cubana, o parte di essa, esorcizza la propria morte latente".
Scantamburlo sottolinea che l'iconografia è calcata su quella religiosa (sia di matrice cattolica che derivante dai culti sincretici afrocubani). Lo stile è plasmato sugli usi oratori del messia Castro. Attorno a lui compaiono gli eroi santificati (Martí, il Che, Cienfuegos). Questo codice immutabile, con il suo corredo di fucili spianati, ciminiere e cazzuole, viene bersagliato dalle barzellette popolari e non di rado arriva da solo al caricaturale, come il "Vamos bien" con cui il líder máximo rassicura un paese in rovina. Ma, soprattutto, non è certo più il linguaggio dei giovani, che sentono la retorica di regime come un "disturbo di fondo", un "rumore" in senso fotografico, che "sporca" la comunicazione e l'immagine del reale. Proprio il contrario del graffitismo semilegale, irriverente e di protesta. Fallita l'illusione pedagogica, i cubani tendono a non vedere nemmeno più questa "colonizzazione grafica legale dello spazio urbano e rurale". Saggiamente, nelle oltre 200 foto di Luca Casagrande, gli slogan sono spesso relativizzati da contesti e contrasti: profili, persone, ombre, giochi e sfaceli.
Danilo Manera
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