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Anno edizione: 2002
Anno edizione: 2014
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Con il pretesto della vicenda processuale di Socrate, Canfora prende spunto per discutere della tirannia del numero, dei criteri enumerativi nella deliberazione democratica, spesso facilmente influenzabili dalla propaganda e dai mezzi di comunicazione, una vera e propria diseducazione di massa. L'antidoto, secondo il filologo barese, a questo imperialismo della massa starebbe in un'adeguata formazione politica in grado d'istruire le persone sulle procedure delle deliberazioni. La proposta sembra interessante, ma ci si potrebbe chiedere: chi si fa carico di questa imparziale formazione politica? Come si può pensare che il politico di turno sia davvero scevro da pregiudizi e precomprensioni? E poi, in seconda analisi, per il formatore è davvero possibile presentarsi come un «soggetto vuoto» davanti ai propri uditori? Nonostante l'esplicito riferimento ad un contesto notoriamente di parte, questo testo di Canfora, in realtà molto divulgativo, è denso di spunti di riflessione, non da ultimo quello inerente il ruolo della oligarchia al potere all'interno del regime democratico eletto con il sistema maggioritario, laddove si verifica necessariamente uno schiacciamento verso il centro.
per riflettere e capire molte cose; l'autore disegna un percorso mentale che si snoda capitolo capitolo fino ad arrivare a farti avere un'opinione, comunque un'opinione su fatti di cui nel quotidiano si parla troppo spesso senza cognizione di causa. Bello ma non alla portata di tutti.
Recensioni
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È una grande scuola di giudizio quella del realismo politico, a cui gli storici antichisti si alimentano (e faremmo bene a frequentarla tutti di più, riforme degli studi permettendo). Canfora la rinforza attingendo alla tradizione marxista una più controversa lezione. Sul primo versante, le pagine dedicate al processo a Socrate, che aprono riprendendo temi del precedente Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci (Sellerio, 2000; cfr. "L'Indice", 2000, n. 10), aiutano a comprendere quale sia il tallone d'Achille della retorica democratica, il fatto cioè che il volere della maggioranza, a cui così volentieri si appellano i "fondamentalisti" della democrazia, è un concetto problematico, soprattutto quando le maggioranze sono manipolate da oligarchi e demagoghi. Nella pratica delle società occidentali, a cominciare dal modello americano, il divario tra democrazia reale e democrazia formale non fa che aumentare. Sul secondo versante, l'autore si riaccosta, facendo propria un'indicazione del programma di ricerca gramsciano, agli elitisti - gli eredi moderni del realismo classico - e delinea uno schema di lettura della storia universale in termini di analisi delle oligarchie, che gli consente un sintetico bilancio del secolo appena concluso: "Le oligarchie legate alla ricchezza vincono, quelle ideologiche perdono".
Si può trarre da ciò una lezione per la sinistra? Le nozze tra questa e il realismo politico sono, è noto, problematiche. Abbracciando il realismo nella sua versione hard (quello della forza) essa si è condannata alla durezza delle rivoluzioni e alla disumanità di regimi totalitari. Accogliendo il realismo nella sua versione soft (quello dei compromessi con l'esistente) ha finito invece per venir meno ai suoi ideali e compromettere la sua identità. Qualche concessione di troppo all'iperrealismo induce Canfora a sorvolare un po' troppo benevolmente sugli errori e sui costi umani della via spartachista all'eguaglianza. Filtra dalle maglie della sua lettura un'implicita teodicea storica, che lo porta a relativizzare il male dei regimi comunisti in virtù dei loro effetti sistemici, in particolare l'aver costretto l'Occidente ad adottare il modello dello stato sociale e l'aver dato impulso al "sommovimento" del mondo coloniale, e a demonizzare oltre misura quelli occidentali, sul cui conto va anche la progressiva corruzione - per imitazione - delle oligarchie comuniste.
Ma non è questo il punto. Dove il realismo di Canfora traballa, pur nella consapevolezza della complessità delle situazioni storiche, è nell'ostinazione a voler coniugare la disincantata diagnosi (si è aperto nei rapporti tra Nord e Sud del mondo un nuovo "ciclo di cui nessuno può immaginare, oltre che la durata, la ferocia") a una filosofia della storia progressiva, che si avvinghia al precario assunto di una "maggior coscienza della necessità di uguaglianza". Quanto accaduto nei processi di decolonizzazione non offre su ciò assicurazioni. Il realismo può soltanto ribadire la sua universale sfiducia nella palingenesi egualitaria, che globalmente presenta oggi condizioni ancor più sfavorevoli di quante ne avesse ieri in Occidente, e suggerirci che il sommovimento del pianeta dei naufraghi potrebbe travolgere anche quella civiltà in cui almeno era possibile esercitare il "pericoloso mestiere" della critica.
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