L'idea di "crisi" ha invaso il dibattito pubblico fino a diventare un riferimento del discorso politico che caratterizza più di altri la società contemporanea o perlomeno le sue rappresentazioni dominanti. Questo l'assunto da cui muove la filosofa francese Myriam Revault d'Allonnes per condurre il lettore in una riflessione, puntuale ed erudita, su origini, usi e abusi di una parola-chiave del nostro tempo. In greco antico il sostantivo krisis significa "scelta", il verbo krinein "giudicare". Termini utilizzati per indicare il momento del discernimento e della decisione, in ambito giudiziario ma anche religioso. Per esempio, quando un sacerdote si proponeva di decifrare il volo degli uccelli per trarne auspici per il futuro. Il vocabolo migra poi verso il lessico militare. Tucidide descrive la guerra del Peloponneso come la "più grande crisi" che abbia colpito la civiltà. Un avvenimento ai suoi occhi eccezionale: il passaggio, decisivo e irreversibile, dall'Atene di Pericle a quella dei trenta tiranni. Significato analogo assume il termine in ambito medico, ove evoca, dall'età classica sino al medioevo, l'urgenza della diagnosi, il dilemma della prognosi e la valutazione, cruciale e improcrastinabile, delle cure da somministrare. A partire dal Rinascimento, lo spettro semantico si amplia ulteriormente. Sarà il marchese d'Argenson, ministro delle finanze di Luigi XV, ad associare per primo il vocabolo alla sfera economica. E Rousseau ad annunciarne il portato politico, prevedendo a metà Settecento l'avvento di un secolo di sconvolgimenti e rivoluzioni.Ma è l'intera modernità occidentale a percepirsi come un'età "di crisi" (vale a dire di cesura, trasformazione e discontinuità) in cui occorre assumere decisioni "che fanno epoca", per svincolarsi dal fardello della tradizione e proiettarsi ottimisticamente verso un futuro di progresso. Lo confermano le tappe fondamentali del suo sviluppo: la crisi del sapere aristotelico-tolemaico come premessa della rivoluzione scientifica e la crisi dell'ancien régime come antefatto della rivoluzione francese. Nel dibattito attuale la crisi assume però, insieme all'iniziale maiuscola, un significato opposto rispetto al passato. Anche la contemporaneità è connotata dalla crisi, ma il termine smette di indicare la rottura, il cambiamento, la transizione verso il nuovo, rimandando piuttosto a una situazione di stallo permanente, a un ostacolo insormontabile, a una condizione senza vie d'uscita. Di tale capovolgimento semantico l'autrice si propone di comprendere le ragioni attraverso una limpida investigazione del pensiero occidentale, che acquisisce, nel corso del volume, il tenore di un'ermeneutica della modernità e di un'interpretazione generale del tempo presente. Le ragioni dello slittamento rispecchiano, secondo Revault d'Allonnes, la progressiva accentuazione del divario, per dirla con Reinhart Koselleck, tra "spazio d'esperienza" e "orizzonte d'attesa", ovvero tra il bagaglio di esperienze accumulate dagli uomini e la sfera delle loro aspirazioni. Così, alla profondità cronologica si sostituisce progressivamente un presente ipertrofico, senza radici né futuro, pietrificato in uno stato di crisi senza fine, in cui è arduo, per le comunità come per gli individui, riuscire a orientarsi. A dispetto della retorica sull'accelerazione dei ritmi di vita e dei mutamenti culturali, bisognerebbe allora riconoscere che tutto si trasforma ma nulla, in fondo, cambia davvero, poiché pare che ormai niente possa essere determinato da una decisione effettiva. Almeno da un punto di vista logico, sembrerebbe allora aver ragione Francis Fukuyama quando, sulla scorta della dialettica hegeliana, decreta la fine della storia, cioè l'accettazione di una visione ateleologica del mondo, in cui è la stessa prospettiva temporale a estenuarsi fino a scomparire. Ma la rassegnazione non offusca il ragionamento di Revault d'Allonnes, che respinge l'idea di una resa della filosofia politica. Certo, si può rimanere imprigionati in una gabbia d'acciaio, per riprendere la metafora coniata da Max Weber in relazione al capitalismo. O progettare con Zygmunt Bauman di fuoriuscirne, profittando della sua liquefazione. Oppure ci si può limitare a un'ermeneutica incessante della soggettività, come hanno fatto, ciascuno a suo modo, Michel Foucault e Jürgen Habermas. Ma si può altresì provare a rifiutare l'inerzia, ingegnandosi ad aprire, come suggerisce Hannah Arendt, una breccia nel monolitismo dello spirito del tempo. Attraverso un pensiero e un'azione diretti al rinnovamento dei canoni dominanti, che contemplino forme di disobbedienza civile e rimettano in moto una trasformazione della realtà che restituisca alla crisi la sua funzione originaria: occasione di cambiamento e motore della storia. Diego Guzzi
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