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Il costo dell'ignoranza. L'Università italiana e la sfida Europa 2020 - copertina
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Descrizione


Quanto è "europea" l'università italiana? Per rispondere a questa domanda, si deve riconoscere che per troppo tempo l'Unione europea è entrata nel discorso pubblico italiano solo per i parametri economico-finanziari, senza prestare sufficiente attenzione agli investimenti in istruzione e ricerca, fondamentali per la crescita delle società avanzate. Il presente volume intende contribuire alla correzione di questa distorsione del discorso pubblico, attraverso un'indagine approfondita dei processi di riforma e adattamento al contesto europeo e internazionale intrapresi dal sistema universitario italiano a partire, in particolare, dagli anni Novanta. La piattaforma di riferimento è la Strategia 2020 dell'Unione europea, che considera l'università come motore dello sviluppo economico e sociale. Nei contributi degli autori, si affrontano gli obiettivi e la performance dell'università italiana in una prospettiva comparata rispetto alle best-practices europee, con un'analisi del percorso di implementazione della riforma da parte degli atenei e l'inserimento nel sistema italiano di meccanismi di valutazione come strumento centrale di governo del sistema, dalla programmazione alla ripartizione delle risorse, mettendo insieme l'esigenza della coesione e quella della competizione. Si svolge, infine, un'analisi sulle diverse dimensioni della mobilità e sul diritto allo studio, sia in una comparazione con la media europea che nelle nuove dinamiche di collaborazione tra settore pubblico e settore privato.
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Dettagli

2013
2 maggio 2013
319 p., Brossura
9788815240941

Voce della critica

  Il costo dell'ignoranza è una delle tante raccolte di saggi che parlano del nostro sistema universitario. Cosa lo distingue dalle numerose pubblicazioni che ogni anno escono sullo stesso tema? Perché leggere questo piuttosto che un altro libro? La ragione, per quanto mi riguarda, è che uno dei due curatori, Marco Meloni, è deputato nonché responsabile delle politiche universitarie per il Partito democratico (nonché, come dicono in gergo, in "quota Letta"). Questa sua curatela, coadiuvata da Giliberto Capano, docente di scienze politiche a Bologna, mi è parsa una comoda finestra attraverso cui vedere come (e con chi) una figura politica di responsabilità analizza la realtà ed elabora le idee che farà poi valere nell'arena politica. La struttura del volume è piuttosto lineare. I tredici contributi di questo volume si suddividono in tre sezioni: la prima traccia una storia dell'università italiana; la seconda si focalizza sulla situazione presente, con una certa enfasi sulle pratiche della valutazione; la terza parte apre a considerazioni più generali sull'evolversi delle forme della conoscenza e sulla loro diffusione. Tutti i saggi affrontano uno specifico argomento, con una marcata enfasi sulla comparazione internazionale (soprattutto con i paesi dell'Unione Europea) e terminano con qualche policy recommendations, cioè qualche suggerimento per gli attori politici. Questi suggerimenti sono poi sintetizzati e rielaborati nel capitolo conclusivo a firma dei due curatori, Dieci proposte per cambiare l'università italiana. Astenendomi delle considerazioni di merito sulle numerose tesi esposte nel libro, che ognuno giudicherà secondo la propria coscienza politica, mi sento di rilevare alcuni aspetti meritori. L'intenzione che anima il libro è condivisibile: ricordare che l'Unione Europea, "troppo spesso (…) entrata nel discorso politico e nell'agenda dei governi italiani solo in relazione alla questione economico-finanziaria", avrebbe anche altre funzioni oltre a quella di imporre l'austerity agli stati più poveri. In particolare, il libro mira a ricordare che l'Unione Europea "vede nell'istruzione superiore un pilastro irrinunciabile" per "migliorare la nostra società e la nostra economia. Inoltre, dopo una ministra della Ricerca che parla di tunnel dei neutrini e dopo il ministro di un governo tecnico che ha dimostrato in diverse occasioni di non avere esattamente il polso della situazione (sostenendo assurdità come "i fuoricorso esistono solo in Italia"), il fatto che i legislatori si facciano consigliare da docenti e consulenti sembrerebbe un passo avanti. A uno sguardo critico queste "luci" proiettano però diverse ombre. Innanzitutto, pur avendo l'ambizione di parlare di politica universitaria, il libro si configura piuttosto come un compendio di sola "ingegneria istituzionale": vengono esplorati in modo dettagliato i metodi più efficienti per raggiungere certi obiettivi (ad esempio l'allocazione efficiente delle risorse, l'integrazione della ricerca italiana con i partner europei), ma nelle trecento pagine appaiono pochissime (benché interessanti) riflessioni sugli obiettivi in sé. Sembrerebbe che il "cosa" fare sia risolto sbrigativamente nella prima frase dell'introduzione: siccome "l'Europa è il punto di riferimento necessario del nostro paese" gli obiettivi sono già stati dati dalla strategia di Lisbona e dal processo di Bologna e a noi non resta che trovare le strade per capire come raggiungerli, adottando le best-practices europee. Inoltre, molte pagine del libro sono butterate da una sfilza di corsivi; difficile non pensare che il ricorso all'inglese legittimato da scopi pratici/semantici (accountability, alumni…) ceda talvolta il passo a un inglesismo compulsivo e manieristico (perché scrivere lag anziché "ritardo"?). Guardando poi ai cv degli autori che hanno contribuito al volume viene da chiedersi perché, accanto a numerosi accademici più o meno blasonati, le uniche voci un po' fuori dal coro appartengano a professionisti di una Spa di consulenza. Non sarebbero stati più pertinenti, ad esempio, i tecnici amministrativi che lavorano nell'università oppure degli studenti? Qualsiasi organizzazione studentesca avrebbe saputo esprimere riflessioni interessanti e soprattutto "radicate" su diritto allo studio, e magari pure evitando le incongruenze contenute nel saggio dedicato a esso, che parla del sistema del Regno Unito talvolta prima della riforma Browne e talvolta dopo. Insomma, si ha l'impressione che il volume sia significativamente succube del "sogno tecnocratico", secondo cui una democrazia funziona al meglio quando i (pochi) competenti dettano un'agenda e tutti gli altri la rispettano. Per chi come me non è ottimista a riguardo a questa come ad altre oligarchie, ci sono una notizia buona e una cattiva: la prima è che Meloni auspica un "dibattito franco, diffuso e coraggioso" aperto a tutta la cittadinanza. La cattiva è che sappiamo bene quanto le azioni divergano dagli auspici quando a formularli è un politico del Pd.

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