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I contesti culturali della letteratura inglese. Il teatro elisabettiano
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1994
10 marzo 1994
376 p.
9788815042835

Voce della critica


recensione di Puppa, P., L'Indice 1994, n. 7

Un teatro che subisce la concorrenza della lotta tra galli o dei combattimenti tra cani, orsi e tori (si veda la denominazione delle arene ospitanti e degli edifici qui ricavati, The Bearbaiting, The Bullbaiting e poi il Cockpit). Spazi riempiti da folle disordinate, adibiti a entrambi gli usi, come la scena dell'Hope. Funzioni incerte tra il bordello, come denunciano le abituali invettive della Chiesa, e la taverna, dato che dal cortile della locanda, origine per lo più del palchetto, dello 'scaffold', il passo verso le stanze da letto che incombono sul rudimentale palcoscenico è certo breve. Così il Boar's Head mantiene il bancone della mescita di birra e le camere dopo la conversione in palcoscenico, così ancora il Bel Savage alterna prosa a incontri di pugilato. Insomma dappertutto puzzo di piscio, per la birra che vi circola copiosa, aromi d'aglio e cipolla e cattivo tabacco, oltre ai consueti lanci di semi di mela e pera e noci in mezzo al vociare sgraziato del pubblico in piedi sull'arena o nei palchi delle gallerie, mentre fuori preme la ressa di gente, impedita al passaggio dagli ingorghi di carrozze mal posteggiate. Sembra un racconto di Fielding o un'immagine di Hogarth, e invece siamo nella Londra della regina Elisabetta I e quindi di Giacomo I, ed è questo il quadro consegnatoci dall'antologia "Il teatro elisabettiano" curata da Loretta Innocenti per Il Mulino. Il periodo preso in considerazione è quello che va dal 1576, anno della costruzione del primo teatro pubblico a gestione continuativa, il Theatre di James Burbage, al 1640, inizio del ventennale bavaglio imposto al palcoscenico inglese dal parlamento puritano durante la guerra civile. Alla restaurazione, la scena elisabettiana muterà radicalmente: entreranno in azione le attrici, infrangendo il tabù che in precedenza assegnava i ruoli femminili a interpreti maschili - si pensi alla proliferazione di ambiguità nelle 'féeries' arcadiche, dove le ragazze si travestivano da giovinetti per inseguire con più agio l'amato -, mentre il palcoscenico centrale e aggettato verrà sostituito dalla frontalità all'italiana, con arco scenico, sipario e cambio di scene. Ma chiamare antologia il lavoro dell'Innocenti è riduttivo, in quanto l'autrice, per dirla secondo categorie retoriche a lei care, personalizza con efficacia il montaggio sul piano dell'inventio e della dispositio, facendo precedere i lunghi passi citati da concisi e densi raccordi. Si tratta altresì di un'opera pionieristica, che ha il merito di travasare nella nostra lingua una scelta qualificata di pagine di storici e di specialisti in gran parte anglosassoni, tra cui si annoverano firme autorevoli come Gurr e Bradbrook. In tal modo la biblioteca italiana che, al di là di monografie su Shakespeare o sulla drammaturgia coeva, risultava quanto mai lacunosa nel settore, si arricchisce di informazioni curiose, di documenti gustosi e di ricognizioni sistematiche - anche mappe e disegni d'epoca - che fan luce sulle complessità misteriose, sulle contraddizioni culturali e ideologiche del teatro elisabettiano. Il volume in particolare analizza in agili capitoli le condizioni tecniche e materiali del lavoro attoriale e scenico, l'evoluzione delle compagnie fino al salto professionale -la legge contro il vagabondaggio nel 1572 imprime selezioni e qualificazioni ai gruppi teatrali -, i rapporti col potere politico, diviso tra Corte e City, l'appoggio delle famiglie nobili e le resistenze addotte dalla borghesia cittadina, e infine l'identità sociale del pubblico, grossolano ma oltremodo competente nella decifrazione e nel completamento delle sineddochi del testo e della scena. E nello studio della Innocenti è inevitabile la presenza dell'humus popolare - opportune in tal senso le pagine prelevate a Robert Weimann -, della vitalità tumultuosa e triviale degli altri generi di spettacolarità con cui il teatro si impasta e contamina, e dai quali si innalza per raggiungere picchi di poesia e di splendore letterario. Una convivenza di basso e di alto, da un lato la forza fisica di acrobati e ginnasti, o l'affabulazione dei ciarlatani di piazza, dall'altro l'allusività emblematica del 'masque' o del 'pageant' di corte, l'idillizzazione filosofica e le pastorellerie in cui il re e la regina si offrono allo sguardo incantato dei sudditi, una mescolanza di opposti dal fragore carnevalesco e di bachtiniana memoria. Una simile apertura di registri, raddoppiata pure dalla tensione tra appoggi nobiliari-regali e ostilità religiose e cittadine, spiega la polimetria e la pluridimensionalità della drammaturgia elisabettiana, così come determina l'ossimoro recitativo tra simbolismi e convenzioni epiche (la scena nuda o poco connotata scenograficamente, dove una candida indica la notte in un ambiente rischiarato dalla luce del giorno, lo spettacolo avendo luogo nel primo pomeriggio) e all'opposto la mimesi realistica, o il falso contrasto tra la stilizzazione e il declamato oratorio e la beceraggine clownesca, come pure il gusto anamorfico che scopre e articola le ragioni di tutti i contendenti in lizza nei vari 'plots' shakespeariani e non. Un'incredibile espansione della forma teatro, dunque, nonostante gli strali ricorrenti della censura che ne paralizza ogni tanto le performances, demonizzate in quanto occasioni di vizi, concentrazione di masse irregolari, e fomentatrici di pesti morale fisiologiche, una vincente proliferazione di luoghi, dai primitivi cortili di locande e dalle arene sportive agli spazi deputati a messinscene regolari. Nel 1629 se ne inventarono diciassette di questi contenitori, distrutti dal fuoco per i materiali lignei e poi ricostruiti: quelli privati e coperti, situati nel cuore della City come il mitico BlackFriars, dove fino al 1609 recitavano le fascinose compagnie dei ragazzi, e quelli collocati negli spazi delle liberties, ossia zone franche rispetto alla severità della legge delle arene scoperte, dove emerge il tipico modello architettonico elisabettiano; spiccano tra queste ultime il Globe e lo Swan, con un'audience di tremila posti e oltre. E pertanto, in una Londra che in quegli anni cresce fino a raggiungere una media di centocinquantamila abitanti, si hanno in attività nel 1610 quattro luoghi teatrali nei quali la somma di pubblico complessivo arriva alle diecimila unità, vale a dire che uno su quindici va a teatro! E nel frattempo sono una trentina le novità drammaturgiche al Globe tra il 1599 e il 1609, e trentuno quelle al Rose di Henslow e tra il 1600 e il 1603, novità, si badi bene, non riprese. Ora, forse può essere paradossale il fatto che una pubblicazione dei genere ci venga non da un'addetta ai lavori delle scienze dello spettacolo, ma da una studiosa di letteratura e di poetica nell'area inglese, sorretta abitualmente da strumenti semiotici e retorici (ricordo tra i suoi titoli un'indagine sogli adattamenti settecenteschi di Shakespeare). E una sorta di palinodia finisce per essere questo libro là dove si assegna alla voce testo una sparuta e risicata presenza, e di cui si puntualizza la subalternità ai condizionamenti del palcoscenico: il copione usato in scena era spesso preparato da suggeritori frettolosi, e il più delle volte la pubblicazione a stampa del testo, in quarto o in folio, era basata su copie di questo tipo e avveniva parecchi anni dopo la composizione e la messinscena dell'opera. Capolavori assoluti dl una stagione tra le più felici della drammaturgia universale escono così da una filologia ardua, e se oggi ci inchiniamo stupiti davanti all'esplosione di storie trascinanti, alla varietà di linguaggi e alla ricchezza di metafore, questo volume ci ricorda il disprezzo e la sottovalutazione di cui godevano al loro tempo questi testi, agli occhi magari degli stessi autori. Ecco ad esempio Shakespeare tutto intento a curare l'edizione dei suoi poemetti classici, indifferente alla sorte dei suoi copioni...

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