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Il titolo, colloquiale, evoca una continuità dell'autore innanzi tutto con se stesso e poi con i suoi abituali interlocutori, ma soprattutto testimonia di una felice consuetudine con la psicoanalisi, intesa come un luogo della mente e degli affetti da abitare stabilmente. D'altronde, la psicoanalisi è la "casa comune" di tutti noi che pratichiamo questo atipico mestiere, di tradizione ormai più che secolare, ma quotidianamente rivissuta e rinnovata. Per me e per molti altri lettori è in effetti facile riprendere il filo del discorso che da molti anni Roberto Speziale-Bagliacca tesse attraverso saggi e libri, quali Colpa. Considerazioni su rimorso, vendetta e responsabilità, Freud messo a fuoco e Ubi major. Il tempo e la cura delle lacerazioni del sé.
Nell'attuale lavoro, Speziale-Bagliacca intende fornire ai più giovani colleghi "ali e radici" del pensiero teorico e della prassi clinica attraverso l'analisi della "tecnica minuta", di quei micro-processi che si dipanano nella relazione terapeutica. Si usa dire che la tecnica psicoanalitica non si può insegnare, pena la mortificazione della personalità e della libertà creativa di ciascuno. Sono in totale disaccordo con tale luogo comune, poiché penso invece che la tecnica, intesa come teoria della tecnica, sia un fattore essenziale della formazione di tutti noi; non certo nel senso di trasmettere l'uso stereotipato o imitativo dello stile dei maestri, ma come occasione insostituibile di farci riflettere a posteriori su quali siano (così come ci ha insegnato Joseph Sandler) le teorie implicite nella mente dell'analista al lavoro. Non si tratta di irrigidire la spontaneità, ma di allenare ciascuno a comprendere perché, a livelli consci, preconsci e inconsci, ha attuato o eluso una determinata strategia interpretativa o perché ha scelto quella particolare formulazione verbale e non verbale (il tono della voce, il silenzio) per il suo intervento.
Al fine di trasmettere alle future generazioni di psicoanalisti e psicoterapeuti il senso, oltre che il modo, del nostro operare, è di grande utilità mostrare con coraggio e sincerità come lavoriamo, riportando in forma diretta le nostre parole, non solo quelle degli analizzati. Proprio come fa l'autore, che spesso trascrive brani di sedute in forma di dialogo, aggiungendo le sue spiegazioni sul perché dice (o non dice) qualcosa. Altrimenti, i nostri resoconti clinici risultano autoreferenti e autoconfermanti, persi in generalizzazioni e allusioni che appiattiscono la materia viva del discorso.
Ad esempio, Speziale-Bagliacca è molto critico con la frase stereotipata che così spesso accompagna l'interpretazione di transfert: "Lei dice questo come se io fossi...". In tal modo si sconfessa o, peggio, si svaluta in anticipo la percezione del paziente, si abbassa la temperatura del transfert; in sintesi, ci si difende dal vivo impatto emotivo del rapporto. Favorisce assai più l'insight chiedere al paziente: "Cosa pensa che ci sia in me per aver adottato questo o quell'atteggiamento?". Ma "le parole difficilmente fanno breccia nell'assedio scrive l'autore se non sono precedute da qualcosa di assai più importante: l'esempio. È il modo di essere e di agire dell'analista (
) che intacca le resistenze e le diffidenze; sono i suoi tempi nel parlare, il suo essere rilassato, la sua capacità di mettersi in gioco in prima persona". Sono ciò che lo trasforma da terapeuta minaccioso in amico da accogliere e da cui farsi accogliere. Mi è piaciuto, in questa chiave, ritrovare più volte nelle pagine del libro il riferimento a Davide Liberman, uno psicoanalista argentino non abbastanza conosciuto in Italia, che negli anni sessanta ha dedicato riflessioni utili e originali al nesso tra lo stile espressivo linguistico e il tipo di struttura psicopatologica dei pazienti (e non solo di essi).
Assai brillante il capitolo Lo humour in seduta, dove si illustra come il senso dell'umorismo, veicolato o meno da motti o storielle, possa funzionare da cortocircuito da inconscio a inconscio, e possa essere quindi (solo con determinati pazienti, ovviamente) divenire un prezioso alleato nel processo terapeutico. Come avviene con uno di quegli analizzati (purtroppo tutt'altro che rari) che pretenderebbero di conservare un loro statuto di credito perenne con la vita e che cercano di trascinare l'analista in discussioni interminabili. Una battuta, una risata condivisa, può assai meglio rinforzare l'alleanza contro la tirannia del narcisismo.
L'autore si racconta, si espone, si fida del suo lettore; che è sempre lasciato libero di non essere d'accordo con quanto viene affermato, di non riconoscersi nelle singole "vignette", ma è convocato comunque a dire a se stesso il perché del dissenso. Non tutti potranno sentirsi a loro agio nelle modalità di tecniche non verbali, peraltro delicatissime, praticate dall'autore; ad esempio, quando a un paziente dominato da una ripetitiva e angosciosa ruminazione, suggerisce (con il consenso delle neuroscienze) di darsi dei colpetti sulla fronte con la punta delle dita, per interrompere il maligno circuito del pensiero.
Nel sottotitolo si legge "nuove tecniche". Ma non c'è intento né trasgressivo, né sovversivo. C'è semmai il piacere quotidianamente rinnovato di non cedere difensivamente alla ripetitività e alla routine, ma di riuscire a sorprendere i pazienti e noi stessi grazie a un collegamento imprevisto: come chiedere al paziente di tramutare una metafora che ha usato in una rêverie, analizzabile come un sogno; oppure fornire un'interpretazione creativa, in una sorta di "contropiede", facendo sulla scacchiera analitica, dice l'autore, la "mossa del cavallo".
Simona Argentieri
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