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La tentazione dell'accumulo radicale del sapere è un mito primordiale e irresistibile: dalla Mesopotamia all'Irak, dal 2500 a.C. al 2003 d.C., dall'Oriente all'Occidente la biblioteca, in quanto luogo di concentrazione fisica delle idee, ha sempre rappresentato un'espressione del potere e al tempo stesso una minaccia a esso. Questo spiega perchè le raccolte di libri sono destinate a essere oggetto di distruzione infinita. La deperibilità dei materiali di cui sono fatte e la necessità di occupare uno spazio fisico esteso costituiscono infatti i primi fattori di rischio di dispersione e favoriscono le modalità attraverso cui l'annullamento dell'identità di un popolo può avvenire.
Tra gli elementi della natura il fuoco è sicuramente quello che ha provocato maggiori danni, anche se non così irreparabili come l'acqua. Anche il furto, e più ancora la confisca dei patrimoni librari in tempi di guerra, ha contribuito all'estinzione di grandi raccolte: la sola trasposizione fisica da un luogo all'altro e l'ordinazione seriale a criteri nuovi determina la distruzione del sistema originario. Infine c'è l'autodistruzione, che può avvenire con la riconversione del prodotto in materia prima (il macero) o in un nuovo supporto.
Insomma, da una parte c'è un immenso patrimonio librario andato perso nei secoli, dall'altra la consapevolezza dei limiti fisici imposti sempre più alla conservazione del sapere contenuto nella produzione a stampa. Di qui la necessità di domandarsi se sia giusto conservare e che cosa. L'atteggiamento biblioclasta ha origini lontane in letteratura ed è sostanzialmente riducibile a pose retoriche, da "ierofanti", secondo la definizione di Polastron. La motivazione filosofica della distruzione delle biblioteche in letteratura sarebbe rinvenibile in Shakespeare, Hugo, Anatole France, Orwell, Canetti, Gide, Borges, Bradbury, Eco e altri.
Ma il senso di questo così esteso panorama delle cause di distruzione delle grandi biblioteche è quello di ricordare che l'annullamento dell'identità di un popolo è atto di grave orrore, perché all'eliminazione fisica del genocidio si accompagna il genicidio, la distruzione pianificata del suo genio, della sua memoria. Il libro è da sempre l'immagine dell'individuo e perciò bruciarlo vuol dire uccidere. Il vero pericolo da temere non è dunque l'incendio, ma il rogo: l'affermazione del nazismo è cominciata a Berlino con i roghi dei libri del 10 maggio 1933, la stessa operazione è accaduta in Russia con lo stalinismo, in Cina in epoca di Mao con lo sterminio dei tibetani, ecc.
Dunque la distruzione e la conservazione non sono che facce di una medesima medaglia, è per questo che chi distrugge le biblioteche resta vittima del loro fascino al punto che è costretto a rifondarle per affermare la sua stessa storia. Della ricorsività non riesce a fare a meno nemmeno l'autore in questo libro, curioso e affascinante, finito e infinito, come il fuoco, ma anche come il sapere. Esso ci conduce in mondi che sembrano di fiaba, ma anche in incubi terribili. C'è tuttavia un aspetto che Polastron lascia aperto all'infinità di questo tema ed è la censura, che nella modernità è favorita dall'uso della tecnologia, ma che apparteneva già alle abilità degli scriptoria dell'antichità. E allora, che tipo di cenere resterà di questi roghi nel futuro?
Bianca Maria Paladino
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