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Anno edizione: 2022
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Questo romanzo postmoderno non coinvolge né emoziona, neanche in un finale allucinante, ma in cui fa capolino qualche briciola d'umanità. Se Vonnegut è stato un grande, lo è stato altrove.
Recensioni
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VONNEGUT, KURT, Galapagos
VONNEGUT, KURT, Comica finale
(recensione pubblicata per l'edizione del 1990)
recensione di Pagetti, C., L'Indice 1991, n. 3
Dopo una prima fase narrativa, culminata con la pubblicazione di "Mattatoio n. 5" ("Slaughterhouse n. 5", 1970), in cui Vonnegut giocava con le convenzioni e i materiali della fantascienza, della spy-story, del romanzo di guerra, lo scrittore americano ha accentuato il carattere parodistico e volutamente disorganico di una scrittura che, quasi a volersi porre come esemplificazione del canone postmoderno, diviene irrisione letteraria, autobiografismo clownesco, ripetizione narcisistica e talvolta un po' irritante di moduli prefabbricati. Tanto più è da lodare la recente versione italiana di due romanzi vonnegutiani entrambi degni di nota. "Comica finale" ("Slapstick" 1976) è una favola apocalittica sulla dissoluzione dell'America, grottescamente avvelenata da cinesi dalle dimensioni lillipuziane e spezzettata "in migliaia di famiglie allargate artificiali". Oltre che alle comiche di Stanlio e Ollio il romanzo di Vonnegut rinvia a un cult movie come "Rocky Horror Picture Show", tanto più che i due protagonisti, il dottor Wilbur Giunchiglia-11 Swain e la sorella Eliza, sono creature mostruose e regressive, "neanderthaloidi", eminentemente adatte a incarnare il regresso morale e fisico di tutta l'umanità, e la stessa natura "mutante" di un testo che, partito da precisi riferimenti autobiografici, genera l'esplicita menzogna di un futuro bizzarro.
Se tutto è distorto e falsificato nel mondo narrativo di Vonnegut, i sentimenti sembrano conservare una loro incredibile forza. E così i frammenti di una memoria remota, presente nel candeliere di Dresda che la ragazzina Melody conserva tra i suoi pochi averi nel viaggio solitario tra le rovine dell'America con cui si chiude "Comica finale". L'uomo moderno continua a misurarsi non con una immaginaria storia del futuro, ma con la concreta immagine delle sue responsabilità storiche risalenti, nel "mito" autobiografico di Vonnegut, al micidiale bombardamento alleato su Dresda, il più devastante di tutti - almeno fino a tempi recenti. Ma anche l'apocalisse consente margini di speranza a chi, come "i bambini, gli ubriaconi e i matti" non è stato attivo protagonista del fallimento del sogno americano. Sotto i carnevaleschi abiti postmoderni Vonnegut rivela la tensione etica e l'anima amara di chi ha visto tutte le guerre del nostro ultimo mezzo secolo: l'altro ieri la seconda guerra mondiale, ieri il Vietnam, oggi (o domani) il conflitto del Golfo.
E, infatti, un marine coinvolto in una strage di civili vietnamiti è la voce narrante di "Gal pagos" (1985), che tuttavia giunge dallo spazio indistinto oltre la vita, dove fluttua lo spettro immortale e ubiquo del figlio dello scrittore di fantascienza Kilgore Trout (un altro noto camuffamento vonnegutiano). Leon Trout, disertore in Svezia, morto in un incidente sul lavoro mentre partecipava alla costruzione del battello ecuadoreño Bahia de Darwin, segue da testimone invisibile e ormai disinteressato gli eventi inesplicabili e totalmente casuali che salvano dall'apocalisse un improbabile gruppetto di esseri umani, destinati a perpetuare la specie proprio sulle isole Galapagos, culla darwiniana della vita. I risultati dell'evoluzione nel milione di anni che segue la catastrofe sono noti alla voce spettrale di Lean Trout. Contrariamente alle aspettative dello Wells 'fin-de-siècle' e dello Stapledon di "Last and First Men*, i nostri lontanissimi discendenti retrocederanno alla condizione acquatica, in uno spensierato connubio con la natura, in cui non occorrono più "grossi cervelli" guastafeste e in cui la selezione naturale è operata spontaneamente da squali e da orche assassine. Forse solo così si potrà cancellare definitivamente il terribile ricordo della Caduta, e delle mille Dresde la cui distruzione ha costellato la storia della civiltà.
Testimone impotente come il personaggio scorporato che oscilla nello spazio-tempo de "Le sirene di Titano", o come lo stesso Billy Pilgrim che vive nello spaventoso deserto di macerie di Dresda e sul lontano pianeta di Tralfamadore in "Mattatoio n. 5", la "voce" di Leon Trout consente a Vonnegut di tornare alle radici più solide della sua ispirazione narrativa quella felicemente espressa, oltre che nei romanzi appena citati, in "Madre Notte" e in "Ghiaccio Nove". Allora la beffa e la parodia, la rete sgangherata delle citazioni letterarie e l'accumulo dei dettagli stravaganti non si esauriscono in un gioco intellettuale un po' arido (come succede talvolta in "Comica finale"), ma diventano i segni di una coscienza che cerca ancora disperatamente una "verità" capace di emergere dal fondo stesso della menzogna. Così la vita scellerata di James Wait (un altro alter ego del narratore, dal nome conradiano) diviene, per una paradossale concatenazione di eventi, modello e sprone che spingerà una vedova vicina al suicidio Mary Hepburn a farsi portatrice indiretta ma indispensabile di nuove esistenze sulle Galapagos. Allo stesso modo, il balletto demenziale a cui si abbandonano i due fratelli von Kleist, l'uno ubriaco, l'altro colpito dall'attacco di un morbo micidiale, è comunque un passaggio necessario per portare sulla Bah¡ de Darwin i superstiti della catastrofe. Di questi personaggi è fatto il grottesco "Regno di Dio" dell'Eden darwiniano su cui presiede la fantasia strampalata di uno scrittore di fantascienza, di Kilgore Trout, di Kurt Vonnegut.
Come nel "classico" ottocentesco dei "Water Babies" di Charles Kingsley, che si serve dei postulati della biologia darwiniana per piegarli didascalicamente alla "verità" superiore della favola per bambini, in cui le fate possono trasformare i poveri spazzacamini in creaturine acquatiche in rotta verso il mare immenso, origine della vita, Vonnegut conduce i miseri avanzi di una umanità ancora una volta condannata dall'autodistruzione sulle mitiche spiagge delle Galapagos, da dove ha preso forma la visione moderna dell'uomo e della natura, e dove l'uomo potrà rinascere, animale marino e letterale 'water-baby', purificato e innocente, finalmente liberato dai "grossi cervelli" e dalle colpe della civiltà. Tutto è salvo e tutto è perduto. I nostri discendenti forniti di pinne non hanno più bisogno neppure della scrittura. Ma la voce spettrale di Leon Trout, che ha rinunciato al viaggio definitivo nell'aldilà silenzioso, può ancora "parlare", "scrivere" questa storia di ultimi e di primi uomini, morti e rinati a Dresda, nel Vietnam e chissà dove ancora. Come noi, che non siamo i 'water-babies' della favola o di un lontano futuro, egli crede nelle parole di Anna Frank poste in epigrafe a "Galapagos": "Nonostante tutto, io continuo a credere nell'intrinseca bontà del cuore umano".
Il Vonnegut di "Galapagos" ha calato quelle parole nel cuore della follia di cui il mondo moderno ci dà esempi continui, le ha sottoposte all'acido corrosivo della parodia e della satira, e le ha trovate ancora, paradossalmente, vere. In "Galapagos" fa la sua comparsa il Mandarax, un aggeggio portatile capace di tradurre da e in ogni lingua immaginabile (eccetto una, come scoprirà il lettore). Un simile strumento farebbe la felicità di ogni povero traduttore "umano". Anche senza Mandarax, Riccardo Mainardi se la cava bene, pur con qualche inutile ridondanza. Ad esempio, almeno nella mia edizione inglese (Grafton Books), la risposta del personaggio che risponde a Leon Trout nell'ultima riga del romanzo suona "'You'll learn, 'he said. 'You'll learn, You'll learn"'. La traduzione: "'Non importa, lo imparerà', ha risposto lui. 'Lo imparerà creda a me, lo imparerà"'.
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