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Sovversione è più che ribellione, è qualcosa di più radicale e contagioso, di più temibilmente pericoloso. Ma se, oltretutto, essa viene definita "non sospetta", significa che ha in sé germi di innocenza, di purezza, in cui risulta temerario cercare qualsivoglia colpa. Infatti, "La verità conosce ogni forma di sovversione": parafrasando Giovanni, Jabès suggerisce che la verità ci farà liberi. Liberi e sovversivi. "Dio è sovversivo; e come ha potuto pensare che l'uomo non lo sarebbe diventato di fonte a Lui?" In questo come in tutti i suoi libri, in prosa e in versi, Edmond Jabès si pone domande fondamentali, assolute, che interrogano l'uomo e la sua fede, o la sua mancanza di fede. Ed esplorano la precarietà dell'esistenza, il nulla, il silenzio, il deserto, l'eternità e la fulminea apparizione dell'istante: in meditazioni che non hanno la presuntuosa assertività degli aforismi, ma sembrano offrirsi al lettore con l'umile richiesta di una solidale concordanza, di una comune ricerca. Il postfatore di questo volume, Antonio Prete, parla della scrittura di Jabès come di un'esperienza interiore, di una poetica interrogazione e ascesi del pensiero; e ancora di spaesamento, di "un ascolto del vuoto, dell'assenza, della solitudine". Una scrittura profondamente etica e profondamente poetica, che si dichiara ostile a ogni banale superficialità: "La banalità non è inoffensiva: rende furiosi". E l'uomo è sempre in bilico, sull'orlo di una voragine della coscienza che potrebbe in ogni momento inghiottirlo, se solo provasse a interrogarsi sulla sua destinazione finale, sul silenzio di Dio: "Apri Dio. E' l'abisso". Di conseguenza " La fortezza più solida è sempre in balia del minimo cedimento del terreno", e "Un passo nella neve è sufficiente a scuotere la montagna". Per questo Jabès ritiene sia necessario esplorare la propria interiorità, saggiarne la forza: "Entrare dentro se stessi. Scoprire la sovversione".
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