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Il fucile da caccia - Yasushi Inoue - copertina
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fucile da caccia

Descrizione


Quando nel 1949, il gornalista, poeta e critico d'arte Inoue Yasushi pubblica il suo primo romanzo ha quarantadue anni. In quest'opera l'autore trova nella brevità una misura ideale e, nell'oscillazione tra il detto e il non detto, raggiunge un miracoloso equilibrio narrativo. Un equilibrio difficile e impervio come il gioco amoroso che tiene legati i destini dei quattro personaggi, un uomo e tre donne, e che li accompagna nel corso degli anni senza mai turbare la calma ritualità delle loro esistenze. Eppure il romanzo è attraversato da una tensione costante, da una rabbia sorda e trattenuta che esplode alla fine, quando ogni menzogna viene svelata, ogni passione consumata e a regnare è la consapevolezza che ogni essere è abitato da una vita segreta.
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Dettagli

9
2004
10 marzo 2004
100 p., Brossura
9788845918445

Valutazioni e recensioni

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Venu
Recensioni: 4/5

La storia di un uomo e tre donne tra loro legati da un amore che non è sempre quello che brilla come il sole, ma che ha viscere profonde e buie. Cento pagine straordinarie: liriche, dolorose, nervose, equilibrate e sottili. Iniziato durante un tardo pomeriggio di poco lavoro, mi ha talmente rapita che ho terminato di leggerlo nel parcheggio, senza poter aspettare di tornare a casa.

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Calypsos
Recensioni: 5/5
"è meglio amare o essere amati"

Il fucile da caccia di Inoue Yasushi, nella sua brevità rivela tutta la sua disarmante consistenza. Un sottile gioco amoroso che lega 4 personaggi (Misugi, Shoko, Midori e Saiko) che si svolge attraverso una serie di lettere delle tre donne destinate a Misugi. Tre lettere che esprimono prospettive diverse, esistenze diverse unite dal filo di una tensione costante sempre in perfetto equilibrio, senza perdere la calma, ma preservando una forza dirompente che pur contenuta rivela la sua carica esplosiva. Anche quando la verità del segreto di un amore celato per ben 13 anni viene a galla, resta la triste e amara consapevolezza che esiste all'interno di ogni individuo resterà una parte segreta, una bugia non sarà mai rivelata. Devo ammettere di averlo riletto un paio di volte per assaporarne principalmente ogni aspetto., ponderando ogni singola pagina. Seppur la lettura sia scorrevole, occorre prestare la massima attenzione ai conflitti interiori dei singoli protagonisti. Il plauso allo scrittore che riesce, condensando in sole 100 pagine, le sfaccettature della complessità dell'agire umano e la triste rassegnazione ad un'esistenza di solitudine. Tre donne che aprono il proprio cuore e lasciano fluire un turbinìo di emozioni all'uomo responsabile di tale sofferenza. Una lettura che mi ha stupito e mi ha fatto calare nei sentimenti delle tre prospettive contrapposte, rivolte al medesimo destinatario. Esiste in ogni essere umano una verità nascosta, con la quale ciascuno impara a convivere e può scegliere di rivelare. Alla fine della lettura, mi torna in mente, la domanda senza risposta della lettera di Saiko : è meglio amare o essere amati? Stra-consigliato.

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angelo
Recensioni: 4/5

Ingredienti: un cacciatore descritto attraverso tre diversi punti di vista, tre lettere di addio di donne a lui care, un rapporto di colpa-amore-morte lungo 13 anni, un triangolo di egoismo-gelosia-fatalità tratteggiato in poche pagine. Consigliato: a chi comunica col silenzio e le parole scritte, a chi resiste alla profondità dei sensi di colpa finché non emergono in superficie.

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Recensioni

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Voce della critica

Mi sono sempre lasciata ispirare dalle storie, per lo più racconti o romanzi brevi, che traevano il loro titolo da un oggetto, un particolare del protagonista magari; quella cosa materiale che offriva lo spunto per lo sviluppo narrativo, a tal punto da divenire protagonista essa stessa. (…) Il cappotto che Gogol’ aveva fatto indossare al suo Akakij Akakievic rappresentava il miraggio di un’ascesa sociale, il lasciapassare per godere di una bella vita nella buona società, ma finisce per costituire la sua rovina in una San Pietroburgo resa ancora più glaciale dalla solitudine. La giada cinese nella collana rubata a Los Angeles che il detective privato John Dalmas, sapientemente tratteggiato da Raymond Chandler, deve ritrovare, aveva fornito all’autore il banco di prova per diventare maestro dell’hard boiled e parlare di un’America nuova, popolata da loschi gigolò, sensitivi di dubbia provenienza e ricche signore che avrebbero speso le loro fortune per un buon whiskey.

L’oggetto che diviene desiderio, ricerca, tensione verso qualcosa di più grande. L’oggetto mutuato in pretesto, in occasione per superarne il limite fisico e farne qualcosa di infinitamente più esteso.

Così, quando tra le mani mi è capitato Il fucile da caccia di Inoue Yasushi, piccolo gioiello di 101 pagine edito da Adelphi, subito sono andata a leggere cosa fosse celato dietro quel titolo, così in linea con una storia negli ambienti dell’arte venatoria. Ma qualcosa mi diceva che anche il quel caso mi trovavo di fronte ad un pretesto, e quindi ho scorso le pagine. (…) Sono inciampata nella maestria di un poeta e critico d’arte, che esordisce a quarantadue anni come scrittore svelando subito ai suoi lettori il suo tocco sensibile, la sua umanità condensata in un lessico semplice e lieve. Nella spontanea freschezza di una narrazione che ricorda proprio la favola, il racconto diretto per eccellenza, stavolta destinato ai grandi, per i quali l’autore cerca di esplorare il lato oscuro dell’animo umano, di spiegarlo per quanto è possibile nella sua prevedibile irrazionalità.

Un po’ come accade ai bambini che, attraverso le storie, si fanno un’idea del mondo che li circonda, dando un nome alle cose, ai fenomeni, ai sentimenti. Alle proprie emozioni.

Cercando di comprendere quell’universo adulto, strano e un po’ bizzarro, che si trova lì, pronto ad attenderli.

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Nel panorama della letteratura giapponese contemporanea, Inoue Yasushi (1907-1991) occupa un posto a parte, difficilmente catalogabile in una specifica corrente, per la varietà dei temi che ispirano la sua vasta opera. Nato nell'isola di Hokkaido dove il padre, medico militare, era stato assegnato, all'età di sei anni venne mandato a vivere dalla nonna, una ex geisha, nella provincia di Shizuoka, perché crescesse nel villaggio di cui la famiglia era originaria. Iniziò a interessarsi alla poesia fin dalla scuola media e cominciò molto presto a scrivere brevi poemi, ma dopo la laurea in estetica e filosofia nel '36 (con una tesi su Paul Valéry) e la parentesi del servizio militare (dal '37 al '38 venne mandato come soldato di fanteria in Cina), abbandonò quasi subito la carriera letteraria per iniziare quella giornalistica. Fu solo dopo la guerra che Inoue decise di dedicarsi alla scrittura, iniziando con il racconto Il fucile da caccia, subito acclamato da critica e lettori, cui seguì una produzione estremamente vasta che gli procurò in patria la consacrazione di "tesoro nazionale vivente".

La fama letteraria di Inoue in Giappone è legata soprattutto a lunghi romanzi storici in cui ricrea, con ispirazione tolstoiana, atmosfere epiche della storia cinese e giapponese (Koshi, del 1982, una biografia romanzata di Confucio, ottenne un immediato successo tra i giovani), ma sono le opere in cui tratta di argomenti intimi, a volte autobiografici, quelle che più lo avvicinano al lettore occidentale. La solitudine dell'essere umano, la tristezza della separazione da ciò che sia ama - persone, luoghi, ambienti - la perdita di illusioni e speranze sono i temi che ispirano i suoi libri più toccanti, tra cui Shirobamba (1967), nel quale l'autore narra la sua infanzia. In Italia non si conosce molto di lui: a parte un paio di novelle apparse su riviste specializzate, finora erano stati pubblicati La montagna Hira (Bompiani, 1964), il racconto autobiografico Ricordi di mia madre (Feltrinelli, 1986), tre novelle uscite con il titolo Il falsario (Il Melangolo, 1995) e La corda spezzata (Vivalda, 2001), cronaca di una scalata.

Esce ora per Adelphi, nelle bella traduzione di Giorgio Amitrano, proprio il racconto epistolare con cui Inoue ha iniziato la sua carriera letteraria, da molti considerato il momento più poetico, l'opera più geniale, nella sua brevità, di tutta la sua produzione.

Il tema che l'ispira - l'illusorietà dell'apparenza, dietro la quale ogni individuo nasconde il segreto della sua vera natura e dei suoi sentimenti profondi - è annunciato nel primo capitolo, in cui uno scrittore, invitato a comporre una poesia per la rivista di un circolo venatorio, si rende conto, a cose fatte, che la figura assorta, quasi sofferente, evocata nei suoi versi non corrisponde all'immagine vigorosa del cacciatore che gli si chiedeva di esaltare. Al contrario, dietro la calma solenne di quell'uomo si indovina il peso di un dolore. In seguito alla pubblicazione della poesia, un certo Misugi scrive all'autore, dicendo di riconoscersi in quel cacciatore solitario, e gli invia tre lettere, da lui ricevute da altrettante donne. Dalla lettura di queste veniamo a conoscenza di un dramma segreto durato tredici anni - il classico triangolo: un uomo, la moglie e l'amante di lui - visto attraverso gli occhi delle due donne, che sono cugine, e della figlia dell'amante.

Nella prima lettera Shōko, la figlia, rivela lo sconcerto provato nell'apprendere, dal diario della madre, l'esistenza di una relazione illecita fra quest'ultima e Misugi, che lei chiama zio. Sentendosi tradita da tutti - dalla madre, che le ha tenuto segreto un legame così intenso da resistere per tanto tempo a un devastante senso di colpa; dallo zio, in cui nutriva fiducia assoluta; dalla zia, che rappresentava per lei un'ideale di femminilità estroversa e dinamica - la ragazza decide di allontanarsi per sempre dalla famiglia. La seconda lettera è di Midori, la moglie di Misugi, che in realtà ha sempre saputo, fin dall'inizio, della relazione del marito con la cugina, ed è vissuta nell'amarezza di un tacito patto: fingere di non vedere le reciproche colpe. Perché anche lei, spinta dal tradimento di Misugi a un crescente distacco, in più occasioni non gli è stata fedele. Ma la morte della cugina, mettendo fine alla necessità di continuare una triste farsa, ponendola di fronte allo squallore del proprio rapporto col marito, la induce finalmente a domandare il divorzio. Nella terza lettera Saiko, l'amante, che per tutto il tempo della relazione è stata oppressa dal senso di colpa e da un presagio di morte, racconta di aver capito, ora che si sente vicina alla fine, non solo che Midori era a conoscenza del suo rapporto con Misugi, ma che questo fatto lascia lei, Saiko, indifferente. E che in fondo al cuore non è riuscita a soffocare l'amore per il marito, dal quale si era separata molto presto, dopo aver scoperto che lui la tradiva. Un senso di solitudine insopportabile la travolge allora, togliendole la forza di lottare per la vita.

Tutte le lettere sono d'addio, per l'impossibilità di sopportare oltre il peso della menzogna, per l'incapacità di ricucire lo strappo aperto nella coscienza delle tre donne dal divario tra la realtà e la serenità illusoria che hanno cercato, ognuna a suo modo, di preservare. Misugi, figura di seducente drammaticità che prende corpo, come tutta la vicenda, attraverso le tre lettere, resterà solo, col ricordo del suo amore per Saiko, e forse il rimorso per il dolore arrecato.

Il tema della solitudine dell'individuo, che cela il suo vero io anche alle persone più amate, persino a se stesso, ricorre sovente nella letteratura giapponese, sia in autori della generazione di Inoue (Tanizaki Junichiro, Abe Kobo) sia in autori più giovani, molto lontani da lui per sensibilità e interessi (Murakami Haruki, Banana Yoshimoto). Cosa che non può stupire in un paese dove la dicotomia tra apparenza e sostanza costituisce, più che altrove, una delle caratteristiche della psiche collettiva. Nel racconto Il fucile da caccia, tuttavia, l'autore infonde in questo tema una rara intensità emotiva, espressa in un linguaggio nitido ed essenziale che il traduttore ha saputo felicemente ricreare. Inoue scandaglia l'animo dei suoi personaggi con una lucidità penetrante, quasi spietata, ne mette a nudo tutta la devastazione, trasmettendone in maniera lirica e immediata l'angoscia e il disorientamento. Una limpidezza che evoca le immagini di uno dei più bei film del cinema giapponese, Rashomon di Kurosawa Akira, in cui un tragico episodio viene raccontato dai tre protagonisti in tre versioni diverse, con la stessa drammatica semplicità, lo stesso pathos che troviamo nelle pagine di Inoue. Sia il libro che il film riprendono infatti un altro tema caro alla sensibilità giapponese, la consapevolezza che la realtà assume aspetti diversi, a seconda del punto di vista da cui la si osserva, e sfugge a ogni spiegazione obiettiva. Bisogna solo accettarla così com'è.

L'impressione che il lettore conserva alla fine del libro non è quindi né di disperazione, né tanto meno di condanna. L'autore non giudica, raccoglie la confessione dei suoi personaggi, si direbbe quasi che li perdoni, e soprattutto li fa amare per l'intensità della loro passione, la loro debolezza, la loro sofferenza. Per quel groviglio di sentimenti che sono al fondo dell'animo umano, sul quale ogni tanto un poeta riesce a fare un po' di luce.

A. Pastore è saggista e traduttrice letteraria dal giapponese e dal francese

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Yasushi Inoue

1907, Asahikawa (Hokkaido)

Laureatosi con una tesi su Paul Valéry, Yasushi intraprese la carriera giornalistica. Esordì con La lotta dei tori (1949), racconto dal tono nichilista, e Il fucile da caccia (1949), breve romanzo epistolare considerato tra i suoi capolavori. Fu anche poeta, critico d’arte e autore di molti romanzi storici ambientati in diverse epoche del Giappone e in Cina. Nella sua copiosa produzione: Vita di un falsario (1951), La corda spezzata (1956), Ricordi di mia madre (1975) e i racconti La morte, l’amore, le onde (1950), Giardino di rocce (1950), Anniversario di matrimonio (1951).

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