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Autobiografie - William Butler Yeats - copertina
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Autobiografie

Descrizione


Visione e realtà, saga e storia, vicende politiche e avventure letterarie e artistiche: le Autobiografie di Yeats ci offrono tutto questo. Nel susseguirsi dei capitoli che compongono ogni "autobiografia", un cronista-poeta ci fa conoscere terre sperdute, ci racconta l'apprendistato di un grande scrittore e compone, attraverso i frammenti di un'esperienza diretta, i ritratti dello scandaloso O. Wilde, del patetico Aubrey Beardsley, di G. B. Shaw, di Lady Gregory, di J. M. Synge, di Douglas Hyde, il filologo e storico del mondo gaelico. "Per mantenere naturali queste note e utili a me stesso, devo impedire che l'una si ricolleghi all'altra, per non arrendermi alla letteratura". Da questo il plurale del titolo.
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Dettagli

1994
11 maggio 1994
576 p.
9788845910463

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Renzo Fiamma
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Benché le Autobiografie non coprano -purtroppo- l'intero arco della sua vita è indubbio che con esse Yeats riesca a farci rivivere alcuni momenti salienti della sua vita, sia privata che pubblica con le grandi battaglie combattute, in primis per la fondazione dell'Abbey Theatre con le violenti polemiche che alcune rappresentazioni suscitavano. I personaggi che sfilano sono una folla, ma mai una pletora e riusciamo, nonostante siano frammenti, a scorgerne la loro vera essenza. Da Wilde con la sua oratoria perfetta che rimane scandalizzato dalle scarpe di un cuoio troppo giallo dell'autore (che, come se non bastasse, ne spaventa il figlio con storie di giganti), al battagliero Shaw dalla micidiale battuta quando, dopo avere trionfato sul palco con la propria pièce, si impone con unabattuta folgorante sull'unico spettatore che ebbe il coraggio di fischiarlo. Un libro consigliato a tutti coloro che vogliono immergersi nella vita di Yeats, con la sua tranquilla presenza al proprio fianco, davvero bello.

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Cristiano Cant
Recensioni: 5/5

Affresco a dir poco incantevole di una vita, impronta di una totalità umana e poetica non inferiore al respiro dei più grandi, libertà e fragilità offerte in pagine di squisitezza quasi inavvicinabile, tanto è il pudore che a volte le vela e tanta la verità che altre volte le travolge e le abita. Il magico, il gotico, il senso inafferrabile del cielo poetico tradotto nella prosa più umile, e il plurale del titolo a designare l'impossibilità d'essere uno e concentrarsi con lucida serenità su un evento, un fatto, un respiro, uno sguardo, giacchè dietro e accanto ad essi vivono gli inesprimibili accenti dell'altro, del lontano, misterioso essere che sente. Indispensabile,prodigioso libro.

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Voce della critica


recensione di Sabbadini, S., L'Indice 1995, n. 3

Se l'altro grande maestro del Novecento angloamericano, T. S. Elliot, ha sempre mirato a tenere ben distinte "la mente che soffre da quella che crea", Yeats, come qualsiasi lettore delle sue poesie può testimoniare, non ha invece mai fatto mistero del bisogno di mescolare poesia e vita, ritenendo, anzi, da buon erede dei romantici, che fosse necessario mettere a nudo l'intero "foul rag-and-bone shop of the heart" (sporco negozio da rigattiere del cuore). Il problema, con lui, è semmai, come per tutti i grandi mitografi, di segno contrario, e cioè distinguere l'avvenimento reale dalla sua sistemazione mitica e simbolica, data la forte consapevolezza che un poeta "non è mai quel miscuglio di casualità e incoerenza che siede a colazione". Per un poeta cresciuto con il motto di Villiers de l'Isle-Adam negli orecchi, "Per ciò che riguarda il vivere, lo facciano pure i servi per noi", scrivere un'autobiografia ha infatti sempre voluto dire prendere le distanze dalla propria vita per leggerla sub specie simbolica sin dalla prefazione al suo ora appena tradotto "Autobiografie", infatti, la preoccupazione principale sarà quella di allontanare dalla loro lettura ''qualche superstite amico... della giovinezza", dichiaratamente per non offenderlo con ricordi inesatti, in realtà per non entrare in quella dialettica "vero-falso" che non è mai stata appannaggio di Yeats, che ha sempre puntato, piuttosto su quella di derivazione goethiana, di "poesia e verità". Non per niente, i "Rˆveries over Childhood and Youth", che costituiscono il primo e più corposo capitolo di queste "Autobiografie", pubblicato autonomamente nel 1915, si concluderà sulla nota caratteristicamente yeatsiana dell'incompiutezza, dell'impossibilità di situarsi nell'uno, e lo farà distinguendo due vite, quella "assoluta" e quella, per così dire, "vissuta", in un bellissimo finale del tutto incongruo a un"'autobiografia" vera: "Non è che io abbia realizzato una parte troppo piccola dei miei progetti, dal momento che non sono ambizioso ma quando penso a tutti i libri che ho letto, e alle sagge parole che ho udito pronunciare, e all'ansia che ho dato a genitori e nonni, e alle speranze che ho coltivato, ecco che allora 'tutta la vita, pesata sulla bilancia della mia vita', mi sembra una preparazione per qualche cosa che non accade mai" (corsivo nostro). Le varie parti che compongono il volume "Autobiografie" furono scritte in epoche diverse, e tutte pubblicate autonomamente: ogni parte ha quindi uno stile e una finalità propria, anche se il loro essere disposte in ordine cronologico, finge l'unità del libro. E va subito detto, anche, al lettore, che, come si diceva prima, l'attendibilità di Yeats sulla propria vita non è molta: chi voglia sapere i "fatti" è rimandato alla bellissima biografia di Ellmann; qui troverà eventi selezionati e organizzati a certi fini mitopoietici, così che sarà possibile, ad esempio, in altre opere dal carattere autobiografico, nei "Memoirs", o in "The Speckled Bird" o in "On the Boiler", trovare medesimi episodi narrati diversamente. Il primo blocco di memorie che, come dice il titolo, "Rˆveries su Infanzia e Giovinezza", copre il periodo che va dalla nascita ai vent'anni, fu iniziato nel 1914, in un periodo di piena crisi esistenziale: Yeats aveva ormai raggiunto la mezz'età, e il ruolo d'artista bohémien non gli andava più bene; voleva una famiglia, ma le relazioni sentimentali di quegli anni erano inesorabilmente fallimentari. Lo spettro della sterilità lo minacciava sotto tutti gli aspetti, come testimoniano molte poesie di "Responsabilities", la raccolta coeva alla stesura delle sue memorie: "Perdono, antichi padri, ... / ... / Perdono, se per una sterile passione, / vicino ormai ai quarantanove, non ho figli, / e niente possiedo se non un libro, / questo soltanto, a prova del mio e del vostro sangue" ("Introductory Rhymes", vv. 1;19-22, in "Responsabilities", 1914).
E, d'altra parte, gli amici più cari cominciavano già a scrivere libri di ricordi in cui lui, che si sentiva autore di tutti loro, era ridotto a semplice personaggio: nel 1913 Lady Gregory aveva pubblicato, in "Our Irish Theatre", le sue memorie della grande avventura della nascita del teatro irlandese, un'epopea di cui Yeats era stato il protagonista; Katherine Tynan, nel suo "Twenty-five years: Reminiscences", aveva addirittura incluso dozzine di lettere di Yeats; ma, soprattutto, George Moore, col suo "Hail and Farewell", aveva offerto un ritratto del nuovo movimento letterario irlandese che Yeats non poteva accettare. In "Coat", la poesia conclusiva di "Responsabilities", Yeats avrebbe commentato: "Al mio canto avevo fatto un mantello / Intessuto dei ricami / D'antiche mitologie, / Dalle calcagna al collo; / Ma l'hanno preso gli stupidi, / E indossato davanti agli occhi del mondo, / Quasi loro l'avessero cucito" (vv. 1-7), aggiungendo più tardi, in una composizione senza titolo, posta di seguito a "Coat", versi così duri che piacquero molto a Pound: "fino a che ogni cosa che più mi è preziosa / si riduce a un pilone lordato da cani vagabondi".
La rabbia e lo scontento però, come accade sempre in Yeats, si trasformarono in stimolo creativo, e Yeats decise di mettere ordine alla propria vita iniziando a "riscriverla": cominciò a scrivere le sue memorie nel gennaio '14, e termin• il volumetto per il Natale dello stesso anno, quando scrisse anche la prefazione. Inizialmente voleva intitolarlo "Memory Harbour", con riferimento a un acquerello dipinto dal fratello che veniva riprodotto a colori nelle prime edizioni, poi, dopo varie oscillazioni tra "A Rˆverie" e "Rˆveries", fu preferito il titolo attuale, col suo plurale, secondo un movimento che verrà replicato anche per il titolo comprensivo di tutta la raccolta, che uscirà come "Autobiographies" nell'edizione inglese nel 1926, e poi nel '27, col titolo "The Autobiography of W. B. Yeats" negli Usa, quasi un anno fosse bastato a ritrovare quell'unità, sentita come mancante nella prima edizione; ma poi le edizioni successive torneranno a preferire il plurale.
La "felicità" del plurale sta tutta nell'assoluta coincidenza con la forma narrativa prescelta. Non si tratta di una continuità progressiva, ma di una serie di trentatré "epifanie", e cioè di trentatré ritagli da una vita in cui si ricongiungono i due termini d'esperienza allusi nel titolo, sotto la voce comune "rˆverie": quello di una passività senza scopo, casuale, quasi un sogno a occhi aperti, una fantasticheria; e, invece, all'opposto quello di una visione come concentrazione attiva, come sforzo d'attenzione in vista d'una contemplazione. Lo sforzo di tutta la scrittura yeatsiana è di riuscire a presentare questi due stati come le facce di un'unica medaglia, quasi la vita, e la poesia, fossero il miracolo d'una attenzione distratta, la coesistenza tra sforzo e grazia: non per niente, secondo quanto recita l'epigrafe della già citata raccolta coeva di poesie, "Responsabilities", "In dreams begin responsability" (Nei sogni comincia la responsabilità).
Incentrato sui ricordi dei semileggendari parenti di parte materna, sui racconti mitici della madre, questa prima parte dei ricordi yeatsiani è però dominata intellettualmente dalla figura del padre, secondo uno schema antropologico ricorrente negli scrittori di questi anni, da Matthew Arnold a Gosse e a Butler, o, per rimanere in Irlanda, dalle "Confessions of a Young Man* di George Moore al "Playboy of Western World" di John M. Synge: l'odio-amore per il padre, d'altra parte, scandisce tutta l'opera yeatsiana, dal giovanile "The Dead of Cuchutain* (1892), attraverso ben due traduzioni dell'"Edipo re" (1912 e 1927) sino al play intitolato "Purgatory" scritto poco prima della morte. Qui, mentre la relazione con la madre è posta fuori dal tempo, e si offre come rapporto continuo con il mitico, la relazione con il padre dà il tempo di queste memorie, secondo un 'pattern' che va dal massimo del potere del padre sino al suo graduale svanire nell'identità diffusa dello stesso io narrante: emblematicamente, è al padre che viene ascritta la parola chiave che darà il titolo al volumetto - "Tutto per lui doveva essere idealizzazione della parola, e in un momento di azione appassionata e di sonnambolica rˆverie".
Ma, al di là delle relazioni col padre - e queste stesse memorie verranno "addomesticate" per non offenderlo, ancora vivo e operoso alla loro uscita -, è interessante vedere come Yeats riesca ad affrontare la narrazione della propria vita secondo i termini d'una nascita del mondo: il continuo offrircisi di impressioni sensibili, la casualità degli sguardi con cui ciò che circonda il bambino ci viene mostrato, producono un senso d'infanzia che va al di là della vita particolare raccontata, per immergerci invece in una specie di visione edenica d'ogni Inizio, dove tutto è conosciuto per la prima volta. E basti ricordare come persino le astrazioni educative vengano ricondotte al sensibile - "Un giorno qualcuno mi parlò della voce della coscienza, e... mi convinsi, dal momento che non udivo una voce vera e propria, che la mia anima era dannata" - o come la natura stessa si presenti in chiave figurale, quasi già percepita come un quadro o un dipinto: "Per il primo anno abitammo in una casa in cima a una scogliera, e di notte la schiuma mi inzuppava il letto". Spesso accostate al "Preludio" wordsworthiano in quanto descrizione minuziosa della "growth of a poet's mind" (la crescita della mente d'un poeta), le memorie yeatsiane mi pare partecipino maggiormente dell'epistolario keatsiano, interessate come sono a singole immagini: scritte secondo una legge conoscitiva che trasforma ogni psicologia in mito, la vita non è vista qui come sviluppo, formazione, ma piuttosto secondo quell'allegoria in cui, per Keats, è inscritta la vita di un poeta. Sarebbe troppo lungo e fuori luogo puntare qui sulla relazione di continuità che sarebbe possibile instaurare tra la teoria yeatsiana dell'"antiself" e quella keatsiana della "negative capability", ma è certo che il tema della "maschera", destinato a trionfare negli scritti autobiografici successivi, qui, nella prima parte, si nasconde tutto in quella serie di doppi e di figure che sono i leggendari parenti evocati, i quali cominciano a costituire lo sfondo mitico che legittimerà la nascita del poeta: "Tutte le famiglie in vista avevano le loro leggende, grottesche, tragiche o romantiche; e spesso mi dicevo che sarebbe stato terribile andarsene a morire in un luogo dove nessuno conoscesse la mia storia".
Il lavoro di ricostruzione e di scrittura dei primi vent'anni fu di buon auspicio per Yeats: l'aveva appena finito che due fatti mutarono profondamente la sua vita, il matrimonio con Georgie Hyde-Lees, e, tramite lei, l'incontro con la scrittura automatica, che parve schiudergli quell'universo simbolico che aveva cercato a lungo nell'esoterismo. La scrittura autobiografica si incrocia ora con la composizione di "A Vision*, l'opera fondamentale della costruzione simbolica di Yeats, che occupa i quattro anni che intercorrono tra il matrimonio (1917) e la pubblicazione del primo capitolo di "The Trembling Veil", nel 1922, la seconda delle sue autobiografie, che copre il periodo dai venti ai trent'anni, e che, come ormai sarà per tutte le restanti parti, sarà scritta dal punto di vista della simbologia costruita, appunto, in "A Vision*.
Il titolo, "Il Velo Tremante", o come preferisce l'edizione Adelphi, "Il Tremito del Velo" (e qui va detto che se buona è la traduzione di Alessandro Passi, e benemerita l'edizione Adelphi, il presentare un libro simile senza introduzione e note, con un indice dei nomi del tutto inadeguato, è opera non si sa se di snobismo folle o di suprema leggerezza) è preso da un'immagine di Mallarmé, "inquiétude du voile dans le temple" ("Crise de vers" in "Oeuvres Complètes", Gallimard, 1945, p. 360; anche se c'è chi, puntando sullo Yeats esoterico, rimanda a "Paroketh, il velo del tempio che venne lacerato dopo la crocefissione": D. Fortune, "La Cabala Mistica", Astrolabio, Roma 1973, p. 50), secondo la quale gli scrittori di fine secolo pensavano al "tremito del velo nel tempio" come a un segno che l'epoca fosse in attesa "di un libro sacro", un libro cioè, che secondo il Nietzsche dell'"Anticristo" esplicitamente alluso, fosse scritto da un uomo "la cui identità è stata così esaltata... da divenire una cosa con l'identità della razza". Dalle immagini mentali della prima raccolta, passiamo qui al tentativo di ritrarre una generazione intera d'artisti che tentano di far rinascere il proprio paese, l'Irlanda, la sua cultura e il suo passato. Il percorso è quello che va da una grande speranza - "Ai miei tempi avevo visto l'Irlanda allontanarsi dalla retorica smargiassa della generazione... di O'Connell... e avevo accarezzato la speranza, o la mezza speranza, che noi potessimo essere i primi in Europa" - a una grande delusione, che metterà in crisi lo strumento primo di quella ricerca, l'azione politica: "la politica, per un uomo che cerchi la visione, non può essere che un risultato parziale... non è forse risaputo che il Creatore sbadiglia nel terremoto, nel tuono e in altri spettacoli popolari, ma si affatica nel tornire la delicata spirale di una conchiglia?", per lasciare invece il posto alle armi più sofisticate della visione e della poesia, riunite nell'idea di un teatro nazionale. La raccolta è scandita in cinque sezioni che, facendo perno sulla terza, ci portano alla progressiva disperazione di "Generazione Tragica" e "Il Fremito delle Ossa": il tremito del velo si propaga in un tremito universale, sino a congiungersi con il tremito dei cavalli di un dipinto giapponese che, "dipinti sulle pareti di un tempio... scappano durante la notte, calpestando le risaie dei vicini". L'unità dell'essere e il caos diventano paurosamente vicini, e le "memorie", contemporaneamente allo svanire del sogno politico, perdono sempre più il loro carattere reale per lasciar posto a una ricerca d'identità che assomiglia sempre più a una ricerca della pietra filosofale. La sconfitta subita in "The Trembling Veil" viene virata in "fine di un ciclo" e conseguente "rinascita".
"Dramatis Personae" la terza e ultima "autobiografia" propriamente scritta - le parti successive, "Straniamento", "La Morte di Synge", "Prodiga Svezia", sono solo estratti dal diario e inseriti per dare una finzione di totalità organica alla raccolta, che vuole vedersi finire nel "trionfo" del Nobel - era stata progettata, come testimonia già una lettera del 1926, per essere "la prova finale della mia mente, il mio ultimo grande sforzo" (The Letters of W.B.Y, ed. A. Wade London 1954). Ma di fatto il progetto non si compì, e solo nel 1934 Yeats proseguì le sue "memorie", coprendo però, invece dei ventisei anni previsti, solo quattro anni, il periodo dell'Irish Literary Theatre.
È impossibile, per i limiti di spazio di una recensione, seguire la dialettica delle varie ulteriori parti biografiche: certo è che, a partire da "Dramatis Personae" siamo di fronte a una svolta nettissima: non è più il passato a essere indagato e ricreato, "senza aver consultato n‚ amici, n‚ lettere, n‚ vecchi giornali", come ci era stato detto all'inizio di "Autobiografie", ma siamo spostati invece al centro di una battaglia culturale piena di riferimenti, citazioni e prese di posizione, in una ricerca che non è più ricerca di sé, ma ricerca della possibilità di creazione del "Poeta": "Uno scrittore deve morire ogni giorno, deve rinascere, come è detto / nell'ufficio dei defunti, sotto forma di un Io incorruttibile, quell'io che è / l'opposto di tutto ciò che egli ha chiamato 'se stesso"' .
Questo sarà anche il tema fondamentale degli ultimi due capitoli autobiografici, dove l'artista giocherà tutta una serie di ruoli all'interno d'una ''allucinazione'', per usare un termine di Wallace Stevens che in qualche modo corrisponde e deriva dal "power of imagination" di Yeats, francamente e decisamente "reazionaria". Il recupero della "tradizione" e il raggiungimento del "bello" e dell"'unità" s'identificano qui, infatti, in una sorta di fantasmagoria feudale non lontana dai sogni malatestiani di Pound, che non per niente si ricorderà più volte di Yeats tra i suoi tristi eroi del bello - e in particola re dello Yeats che aveva lavorato con lui nella solitudine di Stone Cottage: "C'è una fatica fonda come la tomba. / Il Kakemono cresce nella pianta fuori della nebbia / il sole sorge gonfiandosi sopra la montagna / sicché ricordai il rumore nel camino / come fosse il vento nel camino / ma era poi zio William / che componeva al piano di sotto / che aveva fatto un gran Paaavone / nell'orgoglio del suo occhio ("un gran pavone aere perennius": Canto LXXXIII).
Anche se meno tragico di quello poundiano, e, anzi, coronato dal successo del Nobel, il percorso di Yeats non riserva meno fragilità: il senatore e poeta laureato che troviamo alla fine del percorso, non è meno folle e inconsistente del suo fratello americano, e la trasformazione patetica, prima di Coole Park, e poi di Stoccolma e della sua corte in un'illusione rinascimentale dove il poeta gioca a Baldassarre Castiglione e il re è un "gentiluomo di campagna che sa citare Orazio e Catullo", non riescono affatto a trasformare in sogno quel cammino che, da una serie d'epifanie simboliche, attraverso la ricostruzione della propria vita come mito della nascita del poeta, avrebbe dovuto portare all'avverarsi dell'evento", ma anzi, ci lasciano sull'orlo di un incubo. La terribile lucidità di "We know their dream; enough / To know they dreamed and are dead" (Conosciamo il loro sogno; tanto / Da sapere che hanno sognato e sono morti: da "Pasqua" 1916, vv. 81-82) sarebbe valsa ancora solo per la poesia, capace d'incorporare senza volgarità le terribili forze da cui "una terribile bellezza è nata".

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William Butler Yeats

1865, Sandymouth

(Sandymouth, Dublino, 1865 - Roquebrune-St. Martin, Francia, 1939) poeta irlandese. La formazione e il primo interesse per l’occultismo La famiglia era angloirlandese e protestante. Il padre, John, dopo aver studiato legge, aveva preferito dedicarsi alla pittura, in particolare al ritratto. La madre, Susan Pollexfen, proveniva da una famiglia di benestanti commercianti di Sligo, sulla costa occidentale irlandese. Nel 1867 gli Yeats si trasferirono a Londra, dove il padre non riuscì a ottenere quel successo, anche modesto, che sarebbe occorso a mantenere decorosamente la famiglia, e nel 1880 tornarono a Dublino. Y. si iscrisse nel 1885 alla Metropolitan School of Art, e pubblicò nello stesso anno alcune liriche, le prime, sulla «Dublin University Review». Nello...

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