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La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad
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La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad - Danilo Zolo - copertina
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giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad

Descrizione


C'è una 'giustizia' su misura per le grandi potenze occidentali, che godono di un'assoluta impunità per le guerre di aggressione di questi anni, giustificate come guerre umanitarie o come guerre preventive contro il terrorismo. E c'è una 'giustizia dei vincitori' che si applica agli sconfitti e ai popoli oppressi, con la connivenza delle istituzioni internazionali, l'omertà di larga parte dei giuristi accademici e la complicità dei mass media. In realtà solo la guerra persa è un crimine internazionale.
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Dettagli

2006
15 giugno 2006
Brossura
9788842080169

Valutazioni e recensioni

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Niethammer
Recensioni: 5/5

Molto semplicemente: se tutti leggessero questo libro, forse vivremmo in un mondo migliore.

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Gianluca
Recensioni: 3/5

Inoppugnabili e ben argomentate le tesi dell'autore: i vinti impongono la loro giustizia unilaterale, ONU e NATO sono manipolati dalle grandi potenze (vedi diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell'ONU), solo la guerra persa è un crimine. Peccato per alcuni attacchi gratuiti ai colleghi (ad. esempio Michael Waltzer viene tacciato di imperialismo!). Altro neo: si tratta di una raccolta di saggi sullo stesso argomento, quindi a volte ripetitiva.

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Nello
Recensioni: 5/5

Forte di una profondissima conoscenza dell'argomento, il professor Danilo Zolo analizza i problemi nati dall'istituzione dei cosiddetti "tribunali internazionali" che i paesi occidentali hanno promosso con il solo scopo di legittimare la sopraffazione del diritto della forza sulla forza del diritto. Le argomentazioni proposte a sostegno di questa tesi sono a prova di bomba, come a prova di bomba sono le ottime ragioni, elencate da Zolo, per riformare radicalmente l'ONU e per smantellare definitivamente quel mostruoso (e criminale) baraccone che è la NATO. Un saggio decisamente illuminante.

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Voce della critica

Fra i memorabili eventi storici del XX secolo il processo di Norimberga è fra quelli che meglio servono a illustrare l'ambivalenza o, se si preferisce, la fondamentale doppiezza del nostro tempo. Esso segna la nascita di una nuova realtà istituzionale, la giustizia penale internazionale, che nel suo sviluppo, culminato nell'istituzione della corte penale internazionale, si è costantemente richiamata, come a un precedente positivo, ai "principi di Norimberga" (e alla definizione dei "crimini internazionali" contenuta nello Statuto di Londra dell'8 agosto 1945 e poi perfezionata durante il processo). Al tempo stesso, però, quel precedente appare connotato da un grave vizio d'origine, per cui si è parlato di "giustizia politica" e di "giustizia dei vincitori": gli alleati diedero vita a un tribunale militare internazionale in cui non trovarono posto giudici di paesi neutrali e che si rifiutò di pronunciarsi su crimini commessi dai paesi che avevano sconfitto le potenze dell'Asse.
Questa doppiezza è l'oggetto della requisitoria che Danilo Zolo, da tempo un critico severo dell'ideologia cosmopolitica dell'Occidente, ha consegnato al suo ultimo libro. L'atto d'accusa è vecchio quanto il processo di Norimberga, che suscitò le critiche non solo dei giuristi moralmente e politicamente coinvolti (anche se magari non direttamente processati, come Carl Schmitt, di cui si può vedere ora il volume a cura di Helmut Quaritsch, Risposte a Norimberga, Laterza, 2006; cfr. "L'Indice", 2006 n. 7-8) ma anche di intellettuali che del dogma della sovranità statale – alla base dell'impunità di ogni atto politico – erano oppositori convinti, come Hans Kelsen e Hannah Arendt. Sotto questo profilo, gli argomenti messi in campo da Zolo sono tutt'altro che nuovi: mancanza di autonomia e imparzialità, violazione dei diritti soggettivi degli imputati, qualità delle pene inflitte, ispirate a una concezione espiatoria della giustizia retributiva, degradata a mero surrogato della vendetta (non diversamente andarono le cose nel coevo processo di Tokio, in cui invece sedettero, ma senza possibilità di far pesare la loro opinione dissenziente, giudici di paesi neutrali, come l'indiano Radhabinod Pal, a cui il volume rende onore).
Ciò che connota però quest'analisi è la perentorietà con cui nel processo di Norimberga viene ravvisato il "peccato originale" della giustizia penale internazionale. Il fatto che il sottotitolo evochi come punto d'approdo dello sviluppo i processi contro Saddam Hussein (in corso di svolgimento a Baghdad, a opera di un tribunale voluto dagli americani, ma che non è un tribunale internazionale), e non l'ancora iniziale, cauta, e forse malferma, attività della corte penale internazionale, è di per sé indicatore della chiave di lettura suggerita, per la quale l'evoluzione della giurisdizione penale esercitata dalla o in nome della comunità internazionale è da considerarsi piuttosto un'involuzione. Mancando alla storia umana l'intervento della grazia, quel peccato originale è irredimibile: vani pertanto risultano gli sforzi dei valenti giuristi che hanno operato e operano nelle corti internazionali istituite a partire dagli anni novanta; vani quando non viziati essi stessi da compromissione ideologica.
Come le critiche nei confronti della "giustizia dei vincitori" di Norimberga, per quanto in parte (ma non del tutto) fondate su argomenti giuridici (l'argomento dell'irretroattività della pena – nullum crimen nulla poena sine lege – è stato spesso sopravvalutato, prescindendo fra l'altro dal fatto che ogni innovazione del diritto presuppone la rottura e la delegittimazione di un precedente ordinamento giuridico: nessuno stato di diritto democratico sarebbe nato senza rivoluzioni o senza l'urto di qualche guerra), destano sempre un residuo di perplessità, perché finiscono per equiparare la macrocriminalità politica del regime nazista (che include l'enormità della Shoah e una sequela di altri massacri) con i crimini di guerra indotti di cui si sono macchiati gli alleati (la logica della guerra totale finisce inevitabilmente per imporre allo sfidato l'adozione di contromisure che a essa si adeguano), così le recriminazioni nei confronti della mancanza di autonomia e d'imparzialità delle corti penali internazionali oggi operanti appaiono inficiate da un legalismo moralistico che mal si accorda con il realismo politico di cui Zolo si dice fautore.
È forse dotata di realistica ragionevolezza la pretesa che alla fine della seconda guerra mondiale gli alleati ponessero sullo stesso piano i crimini di Hitler, dei suoi gerarchi e dei suoi aguzzini con i bombardamenti di Dresda o anche con quelli di Hiroshima e Nagasaki, che indubbiamente configurano per noi crimini di guerra e crimini contro l'umanità? E non è forse vero che l'accoglimento di una tale linea legalistica avrebbe pregiudicato alla radice la possibilità di celebrare processi e avrebbe spianato la via alla soluzione sovietica della giustizia sommaria (che comunque, questo è vero, nella parte d'Europa occupata dai sovietici ebbe comunque corso) e avrebbe affrettato l'inizio della guerra fredda o magari aperto la strada a un nuovo conflitto mondiale? È così scandaloso che il 9 maggio 1996 sia stato sottoscritto un memorandum di intesa tra la procura del tribunale dell'Aja sull'ex Jugoslavia e la Nato per garantire alla corte penale internazionale, altrimenti impossibilitata a esercitare le sue funzioni, l'arresto e la consegna degli imputati e che più tardi il procuratore generale Carla Del Ponte abbia deciso d'archiviare le denunce di violazioni del diritto internazionale commesse dai militari della Nato nelle settimane di bombardamenti contro la Serbia presentate da varie parti dopo la "guerra umanitaria" in Kosovo? Si poteva realisticamente pensare che un diverso comportamento non avrebbe portato a un conflitto politico per la corte ingestibile e paralizzante? Ed è realistico supporre che un qualsiasi intervento armato, che abbia autentiche finalità coercitive e non si configuri soltanto come operazione di peacekeeping, possa oggi svolgersi, date le tecnologie militari esistenti e la loro continua evoluzione, senza causare quegli "effetti collaterali" che un'applicazione rigorosa del diritto internazionale umanitario porta agevolmente a qualificare come crimini di guerra?
Nella sua genesi e nelle modalità del suo svolgimento la giustizia penale internazionale non può prescindere dal contesto politico, che è un contesto entro il quale lo stato d'eccezione fa costantemente irruzione, aprendo spazi di discrezionalità agli attori politici ma anche a quelli giudiziari. E dunque: giustizia politica? Sì, certo, ma con la duplice avvertenza che l'attributo "politico" ha una pluralità di valenze, non tutte infamanti, e, soprattutto, che tra questa giustizia politica e il riconoscimento dell'impunità ai criminali internazionali non esiste una terza via che sia in grado di garantire al tempo stesso un minimo di efficienza e un massimo d'imparzialità. Il realista che con Zolo riconosce la struttura gerarchica del sistema internazionale e la congenita debolezza delle istituzioni sovranazionali deve guardare senza pregiudiziali dogmatismi a un'inevitabile stagione di transizione nella quale la giustizia penale internazionale deve convivere con la presenza di attori imperiali saldamente convinti di essere i custodi della stabilità globale e pertanto non disposti a farsi legare le mani in una situazione nella quale, oltretutto, imprecisata resta la natura di fattispecie criminali quali il terrorismo globale e la guerra d'aggressione.
Su questo piano l'argomentazione dell'autore rivela i suoi limiti ideologici. Il realismo di Zolo è, a ben vedere, un realismo a corrente alternata, usato per sostenere giudizi politici alla cui base sta però una condanna morale inappellabile. Di ciò è indicatore il fatto che dello strumento giudiziario internazionale stia a lui a cuore non tanto l'efficacia (sotto il profilo della deterrenza e della prevenzione – e qui il discorso è sicuramente aperto) quanto la legittimità. Egli è al tempo stesso un critico della Realpolitik imperialistica e dell'universalismo normativistico e giudiziario. Nelle istituzioni sovranazionali non riconosce altro che una sovrastruttura giuridica interamente colonizzata dalla volontà di potenza degli Stati Uniti. Lo indigna l'uso della violenza contro le popolazioni civili da parte degli apparati militari delle grandi e piccole potenze. Ma non è disposto a dare credito ad istituzioni che faticosamente lavorano per contrastare gli spazi d'impunità politica nell'arena internazionale, confidando sulle residue possibilità di una civilizzazione globale. Tutto sommato, il lettore trae dalla lettura del suo libro l'impressione che egli continui a confidare, con Antonio Negri e altri critici neo-neomarxisti, sulla capacità rigeneratrice di una violenza che viene dal basso; e con molta indulgenza e poco realismo assolva la volontà di vendetta degli umiliati e offesi.
  Pier Paolo Portinaro

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Conosci l'autore

Danilo Zolo

Danilo Zolo ha insegnato Filosofia del diritto e Filosofia del diritto internazionale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze. È stato Visiting Fellow in numerose università inglesi e statunitensi e nel 1993 gli è stata assegnata la Jemolo Fellowship presso il Nuffield College di Oxford. Ha tenuto corsi di lezioni in Argentina, Brasile, Messico e Colombia. Nel 2001 ha fondato la rivista elettronica internazionale “Jura Gentium”. Fra i suoi scritti: Reflexive Epistemology (Kluwer, 1989); Democracy and Complexity (Polity Press, 1992); I signori della pace (Carocci, 1998); Invoking Humanity: War, Law and Global Order (Continuum, 2002); Globalizzazione. Una mappa dei problemi (Laterza,); La giustizia dei vincitori (Laterza,...

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