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In trappola col topo. Una lettura di Mickey Mouse - Antonio Faeti - copertina
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In trappola col topo. Una lettura di Mickey Mouse - Antonio Faeti - copertina
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Dettagli

1986
1 gennaio 1997
XIV-289 p.
9788806593681

Voce della critica


recensione di De Federicis, L., L'Indice 1986, n. 9

Il nuovo libro di Faeti non si lascia classificare facilmente. È davvero incentrato sulla pedagogia della lettura (punto di vista che l'autore rivendica esplicitamente più di una volta) e sul mondo dell'educazione infantile? O lo è invece sull'America, sul mito dell'America diffuso, come Topolino, nel fiabesco mondiale? O è semplicemente una trappola di citazioni fitte e disparate, di figure e ammiccamenti, abilmente congegnata per disorientare e catturare il lettore? Chi è nato negli anni Trenta, coetaneo di Faeti o fratello maggiore, sarà tentato di leggervi soprattutto il racconto di un grande viaggio di formazione: viaggio però di un'epoca in cui, tra i disastri della guerra e subito dopo, le esperienze reali erano dure e obbligate, e ci si muoveva curiosamente soltanto attraverso libri e film, giornalini e fumetti.
Faeti rifà dunque questo viaggio, distribuendone la materia in sei capitoli, con breve prefazione e (una civetteria) brevissima postfazione. Il primo capitolo, che rincorre il "topos" del topo qua e là nelle letterature d'ogni tempo e paese, si salda con l'ultimo, che invece presenta indicazioni specifiche per la lettura di un buon numero di storie di Mickey Mouse (quasi cento) raccontate nell'arco di vent'anni, in strisce qui disposte a ritroso dal 1952 al 1932. Si tratta infatti di mettere la variante Topolino in rapporto con una tradizione metaforica in cui le connotazioni di schifo e paura sembrano prevalere su quelle ilari. Faeti punta subito sull'ambivalenza della metafora, sulla doppia natura del topo, che spesso è stato pestifero e assassino, ma che può farsi personaggio versatile, sfuggente e furbo, in favole e fiabe. Anzi, l'ipotesi che il "topos" del topo non abbia autentici confini n‚ dimensioni ultime, perché "ci sono topi ovunque e sono molto diversi tra loro" (p. 40), lo autorizza alla straordinaria successione di passaggi da libro a libro, da storia a storia, da immagine a immagine che è la sostanza corposa del volume. Il topo metaforico non è tenuto neppure ad avere muso e sembianze di topo. E così Faeti può riconoscere caratteristiche o almeno contiguità disneyane non solo in altri motivi e figure del suo personale sogno americano (cap. Il), ma in certe situazioni narrative di Dickens e di Frank Capra (cap. III) e addirittura nell'immagine di Roosevelt, un presidente-topo (cap. IV). L'idea di fondo è che Mickey sia diventato prestissimo non un personaggio univoco e definito, ma "un aggregato di motivi mitici e fiabeschi" (p. 182). Un aggregato: ha assunto infatti aspetti molteplici e contraddittori, inserendosi via via in vari contesti storici, l'America della depressione e quella del "new deal", l'Italia fascista e quella di "Linus" o di "Lotta continua", fino a oggi (cap. V).
La storia delle trasformazioni grafiche e fisionomiche subite dal topo Mickey interesserà specialmente chi voglia capire i prodotti e gli effetti delle comunicazioni di massa e in particolare il mondo dei disegni, fumetti, "cartoons". Però ci sono altre ragioni per leggere questo libro, che è volto alla rievocazione, ma nasce tutto nell'ottica del presente ed è perciò una buona spia di tendenze e problemi molto attuali. Uno è, per esempio, il problema delle culture giovanili e del loro cambiamento nell'ultimo mezzo secolo. Il viaggio di formazione che Faeti ricostruisce passava attraverso i libri, molti libri, con una componente visiva costituita da illustrazioni, fumetti, film. Passava attraverso personaggi, situazioni, vicende. Era, insomma, lettura. Oggi la realtà giovanile, che qualcuno incomincia ad analizzare come se fosse già storia (penso a un bel libro di Iain Chambers, "Ritmi urbani", Costa e Nolan, Genova 1986, e ad altri saggi sociologici della cosiddetta scuola di Birmingham), dispone di un gioco combinatorio più ampio e in parte diverso (prevale, per esempio, la componente musicale), e tuttavia sembra più fragile, affidata a gesti che restano provvisori, inconsapevoli anche se assumono il valore di rituali e segnali: entrare in un negozio, comperare un disco (quel disco), scegliersi un modo di vestire, di camminare, una faccia.
Faeti ci dà un esempio dei possibili percorsi di ricerca in cui torna utile il concetto di immaginario collettivo, che invece capita spesso di trovare banalmente sprecato. L'immaginario, come insieme di rappresentazioni del reale e finzioni fortemente simboliche che stanno al confine tra conscio e inconscio, gli serve a collegare non arbitrariamente, indagandone i comuni fondamenti antropologici, vari generi e sistemi espressivi: romanzo e cinema, fumetto e giornalismo, figura e parola, personaggi inventati e altri realmente esistiti. Gli serve soprattutto a eludere lo schema della suddivisione, o della contrapposizione, tra letteratura alta e bassa. Ecco uno dei principi di carattere generale (non molti) che egli enuncia nel corso del lavoro: "un eroe come Pecos Bill deve molto del suo rilievo pedagogico alla sua collocazione, posta in bilico tra riferimenti Alti e Bassi: e di un simile incrocio testimoniano sempre le comunicazioni di massa, quando realizzano prodotti che, pur legandosi a media e a generi particolari, evidenziano una propria originale specificità. La forza educativa di queste rare occasioni nasce dal loro attingere a vari depositi mitici: i prodotti collegati solo all'Alto o solo al Basso si privano invece di notevoli capacità di persuasione" (p. 56).
Questa opinione da pedagogista apre varie prospettive. Notiamo anzitutto che si accorda con un'esigenza che emerge ovunque si cerchi di riflettere sull'andamento della produzione libraria: l'esigenza di uscire da un'idea di letteratura bloccata nelle sue istituzioni e poco adatta a comprendere gli scrittori d'oggi, che sono spesso multimediali, risentono cioè l'influenza delle immagini e degli altri linguaggi mediati dalla tecnologia in mezzo ai quali viviamo. Promuovere una mescolanza di cultura alta e cultura "pop" (come suggerisce in un'intervista recente Elizabeth Hardwick che ha fondato e diretto la "New York Review of Books") può essere anche un buon modo per entrare nelle culture giovanili, dove gli incroci immaginativi e gli accostamenti decontestualizzati sono andati oltre le possibilità descritte da Faeti. È andata molto avanti anche l'americanizzazione, che dalla cultura giovanile è apparsa subito inseparabile: non è questo d'altronde il senso profondo che tiene insieme i capitoli del libro ben più saldamente di quanto non mostrino i raccordi di superficie? Oggi l'America che occupa i paesaggi urbani e mentali ha una matrice televisiva e pubblicitaria e una presenza soprattutto iconica: stelle e strisce, jeans, ponte di Brooklyn o grattacieli di Manhattan, cappelli e stivali. Invece nella mappa mentale di Faeti stavano, insieme con Topolino e Gambadilegno, l'Humphrey Bogart di "Casablanca" e il presidente Roosevelt. È chiaro che, nel momento in cui entra a far parte dell'immaginario di Faeti, Roosevelt stesso diventa un presidente immaginario e perciò può assumere le caratteristiche del Topo disneyano: metter le mani dappertutto, tener d'occhio la città e la campagna, entrare in tutte le famiglie, e muoversi sempre con ottimismo per superare gli svantaggi (della piccolezza o dell'invalidità). "Nella sua carrozzina - è proprio vero - un Presidente paralizzato condusse il suo grande paese alla vittoria sull'ingiustizia sociale e sulla prepotenza fascista. Un uomo debole nel fisico prevalse sulle facce feroci, sulle grinte maschie, sulle maschere eterne della stupidità autoritaria".
Sono frasi non di Faeti, ma di Giorgio Ruffolo, comparse in un articolo di pochi mesi fa. Non è affatto immaginaria l'insistenza con cui una parte della sinistra torna a interrogarsi sul mito della democrazia americana e sull'intreccio, che essa ha rappresentato persuasivamente, di ragioni politiche ed etiche. C'è questo, nel libro di Faeti, ed è la cosa che ci fa più pensare.


recensione di Rondolino, G., L'Indice 1986, n. 9

Forse il miglior modo per leggere questo bel libro di Faeti, anche per chi, come me, si occupa di storia del cinema, e di cinema d'animazione in particolare, è partire dalla postfazione, una brevissima postilla dell'autore che è anche una pubblica confessione. Scrive Faeti: "A p. 403 di uno dei libri più belli di questi anni "La vita istruzioni per l'uso" di Georges Perec, un lettore legge "La valle della luna" di Jack London: tutta la mia riflessione su Mickey è fondata su un gioco di rimandi di questo tipo. London e Perec si trovano e si cercano, si leggono insieme. Forse ho tentato di compiere un'impresa che si collega all'archeologia, ma non all'archeologia dei media, all'archeologia e basta". E poco dopo aggiunge: "Da poco tempo è morto Orson Welles e io avrei voluto intitolare questo libro "Rosebud". Non l'ho fatto: e non solo perché mi è mancato il coraggio".
Per chi non lo sapesse, "Rosebud" è il nome dello slittino che il giovane Charles Foster Kane, protagonista del wellesiano "Citizen Kane", si porta dietro per tutta la vita e pronuncia quando muore, quasi a fornire una traccia, invero esile e sostanzialmente inascoltata, per ricostruire la sua tormentata vita, piena di contraddizioni e di valori smarriti. Come quel nome misterioso, appena sussurrato all'inizio del film e poi visibile, in una delle ultime inquadrature, sullo slittino che sta bruciando nel grande rogo delle cose inutili, così questo libro vuole essere una guida per inoltrarsi in un terreno in parte inesplorato, accidentato, alquanto vasto, dai confini non ben tracciati, anzi in molti punti imprecisati. E come il film di Welles anch'esso procede per capitoli separati, per approcci interdisciplinari, attraverso percorsi incrociati, seguendo strade parallele, a volte anche divergenti. Una sorta di grande "puzzle" (come quello che compare in "Citizen Kane"), i cui pezzi non sono stati tutti collocati al loro posto, ed è molto probabile che non pochi siano andati perduti. Un "puzzle" volutamente incompleto, anche per la sua vastità, ma, forse proprio per questo, ancor più affascinante".
In altre parole, il libro di Faeti - che si legge, è fin troppo ovvio dirlo, come un romanzo - è una sorta di scavo archeologico in corso, da cui sono stati tratti interessantissimi reperti anche sul versante cinematografico. Non si dimentichi che il personaggio di Mickey Mouse, e più in generale il cinema di Walt Disney, è stato per molti anni (e in larga misura torna ad esserlo oggi) al centro d'un discorso al tempo stesso cinematografico e sociale, artistico e ideologico. In un periodo in cui il "revival" disneyano, spesso non molto controllato sul piano critico, seppure controllatissimo sul piano filologico, produce libri e saggi variamente significativi (dal catalogo "Walt Disney", a cura di Edoardo Bruno e Enrico Ghezzi, ed. La Biennale di Venezia, Venezia 1985, pp. 261, al recentissimo "Walt Disney e l'impero disneyano" di Franco Fossati, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. 162), questo "In trappola col topo" offre una lettura ben più stimolante e problematica, perché apre una serie di problemi, prospetta una serie di ipotesi il cui approfondimento - in campo cinematografico - potrebbe condurre a risultati di grande interesse.
A pagina 21, ad esempio, Faeti parla del "rovesciamento operato da Disney (e da altri prima e dopo di lui) del contenuto del 'topos' topo", su cui si è dilungato, con ricca documentazione storica, nel primo capitolo del libro. Questo rovesciamento può fornire una utile chiave di lettura dell'intero primo cinema disneyano - prima cioè del cedimento, nel corso degli Anni Trenta, agli allettamenti di Hollywood e alla massificazione spettacolare del disegno animato artigianale. Ed è un'analisi che, partendo proprio da Topolino, potrebbe estendersi con profitto a tutto il bestiario del cinema d'animazione pre- e post-disneyano, in cui abbonda il personaggio del topo (si pensi a Paul Terry).
Quanto al presunto pedagogismo di Walt Disney e al suo moralismo, le osservazioni di Faeti non sono meno stimolanti. A pagina 93 egli scrive: "Ma il grande Walt che spingeva il suo Mickey Mouse, fresco di speranze, di ingegno, di vitalismo, verso mete prive di limiti, è sicuramente un pedagogista diverso da quelli che hanno laboriosamente riempito le pagine delle 'Storie della letteratura per l'infanzia'". Disney ribalta ogni sogno, mette in dubbio ogni speranza (questa sua "illimitata" libertà non può avere confini quantitativi: è sufficiente osservare gli elenchi delle produzioni di film con Topolino protagonista, fino al termine degli anni Trenta, per scoprire che Walt viaggia sconsideratamente, qua e 1à, senza proporsi mete o linee di sviluppo, schiaffeggiando una fiaba, prendendo a calci un classico, oppure demolendo un'intera consolidata tradizione spettacolare), semplicemente perché possiede il dono incomparabile, e insostituibile per chi opera davvero nelle comunicazioni di massa, di una ingovernabile 'volgarità'".
Un discorso, questo, che apre anche il capitolo sul "kitsch" disneyano e, più in generale, sul conformismo non solo di Topolino, ma dell'intera produzione cinematografica di Disney. Ed è un capitolo di notevole rilevanza, perché in questa direzione di ricerca si potrebbero fare scoperte interessanti, che rimetterebbero in discussione, in una diversa prospettiva critica, l'intera storia del disegno animato di serie, dalle origini americane agli ultimi epigoni televisi giapponesi. Ma altre suggestioni il libro di Faeti contiene, a cominciare dall'analisi comparata delle poetiche di Disney, di Dickens e di Frank Capra, in una prospettiva più ampia e articolata di quanto già non fosse stato detto da altri studiosi ed esegeti. Un rapporto sottile di rimandi e influenze che consente di vedere il cinema disneyano entro un contesto culturale e sociale meno provvisorio e generico. In questo senso indicativa è questa affermazione di Faeti: "Nel percorso che conduce da Dickens a Disney, passando per Frank Capra, c'è poi un sistema di collegamenti in cui, in misura maggiore e più specifica, si determina propriamente una innegabile continuità, fondata soprattutto sull'evoluzione dei prodotti in rapporto al mutamento del pubblico" (pag. 115). O quest'altra: "Come in Capra e in Disney, anche in Dickens c'è una preferenziale collocazione dello sguardo: si vede meglio se ci si pone ad altezza di bambino, si scrutano le cose con più chiarezza se si contemplano dall'angolo in cui sta il diverso" (pag. 127).
Se forse appaiono meno convincenti le pagine dedicate al "New Deal" rooseveltiano e alla posizione di Disney nel contesto politico e sociale degli Anni Trenta (anche perché su ciò si è scritto molto), certamente coinvolgente e ricco di spunti originali è il capitolo finale del libro, tutto dedicato all'analisi di alcune storie a fumetti di Topolino. Un capitolo che illumina, a ritroso, anche il cinema di Disney e i caratteri dei suoi numerosi personaggi antropomorfi (a p. 113 Faeti parla di "un repertorio zoologico che antropomorfizza le bestie e rende animaleschi gli umani"). Ma tutto il libro, come si è detto, nella sua struttura di "puzzle" incompiuto è una miniera di stimoli critici. Basta saperli cogliere e proseguire, settorialmente, nell'analisi.

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