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"Questo non è un libro di storia. È quel che mi rimanda la memoria quando colgo lo sguardo dubbioso di chi mi è attorno: perché sei stata comunista? Perché dici di esserlo? Che intendi? Senza un partito, senza cariche, accanto a un giornale che non è più tuo? È una illusione cui ti aggrappi, per ostinazione, per ossificazione? La vicenda del comunismo e dei comunisti del Novecento è finita così malamente che è impossibile non porsela. Che è stato essere un comunista in Italia dal 1943? Comunista come membro di un partito, non solo come un momento di coscienza interiore con il quale si può sempre cavarsela: "In questo o in quello non c'entro". Comincio dall'interrogare me. Senza consultare né libri né documenti ma non senza dubbi."
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Dettagli

2005
29 novembre 2005
385 p., Rilegato
9788806143756
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Indice


Le prime frasi

Capitolo primo

Non ho trovato il comunismo in casa, questo è certo. E neanche la politica. E poi dell'infanzia non ricordo quasi niente, e poco dei primi sette anni nei quali - secondo Marina Cvetaeva - tutto sarebbe già compiuto. Non ho nostalgie di un'età felice né risentimenti per lacrime versate nella notte. Dev'essere stata un'infanzia comune, affettuosa, un'anticamera, una crisalide dalla quale avevo fretta di uscire per svolazzare a mo' di farfalla. Tutti mi sembravano farfalle salvo i bambini.
Sono nata negli anni venti a Pola con sconcerto delle anagrafi: nata a Pola (Italia), a Pola (Iugoslavia), a Pola (Croazia). Allora era Italia. Sulla punta dell'Istria, tra il verde e gli scogli bianchi scavati dai datteri di mare. Poco oltre le isole del Carnaro e frammenti di isole, come la Fenera e Scoglio Cielo che erano di mia madre. Non so come si chiamino adesso, non sono mai tornata. Erano abitate dai conigli selvatici, vi approdavamo dal bragozzo, i narcisi erano alti come me e profumavano forte. Mamma mi insegnava a cogliere gli asparagi selvatici affondando le dita nel muschio. Qualche fotografia di uomini col fucile e signore dalla vita lunga e calottine fino agli occhi fissano anche me, ridente e stupidella. Ma mi è rimasto in mente il serpente nero che traversò la tovaglia stesa sull'erba con le uova sode e il salame, e tutti balzarono su, e mi sentii dimenticata. Quell'ondulata creatura sparì velocemente. Poi cadeva un tramonto rosso e scendendo verso il bragozzo le figure diventavano nere contro luce, come nella fotografia di mia madre, le braccia cariche di narcisi, di profilo vicino al barcone dalla vela latina. Contro ogni probabilità sono certa di esser nata quella notte.
L'alto Adriatico era uscito dall'impero austroungarico da una decina di anni e i miei misuravano il tempo in «prima della guerra» o «dopo la guerra». La guerra stava alle spalle, nell'album trovo minuscole foto di aeroplani azzoppati, case sbreccate, una cupola bizantina china da un lato, forse in Serbia, forse in Ungheria. Ungherese è la dedica di una piccola raccolta di foto di mia madre, «Anitanak 1917», e si apre con lei sedicenne, il viso al vento, una gran gonna a pieghe, il giaccone marinaro, davanti al timone d'una nave da guerra. Mamma non lo me lo fece vedere mai, quell'album forse di un innamorato, lo trovai fra le sue carte dopo che morì, apparteneva alle cose prima di me che mi erano irrimediabilmente tolte. Da piccoli duole di essere privati del passato come da vecchi del futuro. La guerra era un segnatempo e tale sarebbe rimasta finché la privata sciagura del 1929 non ne avesse imposto un altro. Del passato papa e mamma non tradivano nostalgie, erano stati irredentisti, la sciamannata Italia li aveva delusi, a Trieste nessun impero guardava più come al suo sbocco al mare né i Mann o i Mahler scendevano più ad Abbazia. Restò una terra di frontiera ma slittò a margine, pezzo d'Italia tra due guerre. Se i miei nutrivano rimpianti se li tennero dentro. A distanza credo che ne fosse venuto loro un certo scetticismo, ma non erano della stirpe degli imprecatori. Intanto loro erano il misterioso prima mentre io soltanto l'adesso, il che mi amareggiava assai. Il prima risuonava di nomi fascinosi - non Franz Joseph che non so perché si nominava sorridendo, né Zita, Ferdinando, Sarajevo dei quali ai bambini si taceva - ma quelli che aveva lasciato in giro la risacca della Mitteleuropa, Hunyadi, Esterhàzy, Karageorgevic, Kupelwieser. Papa e mamma parlavano fra loro in tedesco. Mai con noi, forse volevano fare delle figlie due persone normali invece che gente di due luoghi, due origini e tre lingue. Papà non aveva voluto sostenere in tedesco la tesi a Vienna, e quel tollerante impero gli aveva permesso di discuterla in latino: era una tesi di diritto, ma la facoltà si chiamava ancora di Teologia. Nessuno fu meno fanatico dei miei, meno incline a leggere il presente sul passato. O forse è una qualità della gente di frontiera. Cesare Battisti e Nazario Sauro hanno frequentato i miei primi anni con discrezione. Nel corpo a corpo per lavarci i capelli, mamma canticchiava: «Nell'Italia, e dei Rossetti, no se parla no se parla che italian». Chissà perché «e dei Rossetti», dei quali facevo vagamente tutt'uno con nude signore dalla capigliatura fluente tra fronde di alloro nelle xilografie di De Carolis appese alle pareti, accanto a Beethoven e all'inquietante Isola dei morti. Pola era città di miscele, per casa giravano il giovane dottor Peschle, del quale ero follemente innamorata, e il vecchio dottor Ughi, i Dejak e i Rocca, ci si muoveva fra via Marianna e via Kandler, in cucina c'erano lo Sparhert e il tamiso, in tavola la jota o la pastina in brodo, il Kaiserfleisch o il salame e i Kipferln convivevano con i biscotti. In giardino c'erano le rose sul viale davanti e le Fenstrosen su quello dietro, e per la mia festa fiorivano i Flieder. Dalla soffitta a nord sciamavamo a sera i Fliegermause mentre il cane era il cane e il gatto era il gatto. Da dove venivamo? Istriani cioè triestini, si diceva. La nonna vestiva di nero con un bel fiocco di seta al collo, perché era vedova d'un ufficiale della Marina austriaca che l'aveva lasciata con una modesta pensione e quattro ragazze: il tenente De Simon era affondato nel tempo, non ne ho mai saputo il nome. Nonna aveva accasato tre figlie nei dintorni della Marina; tutte e quattro avevano fatto le scuole austriache, scrivevano negli eleganti corsivi gotici e le due maggiori si erano fidanzate ancora nelle lunghe gonne e immensi cappelli di velluto nero, giusto prima che Chanel scorciasse abiti e chiome.

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luigi culmone
Recensioni: 3/5

libro graficamente elegante , scritto anche bene...ma non dice nulla di nuovo e soprattutto non una parola di autocritica su un secolo di sangue ed errori tragici....

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paola
Recensioni: 5/5

L'ho regalato qualche anno fa ad una zia novantenne che lo ha già riletto almeno un paio di volte. Parla di una Torino dove visse proprio negli anni che Rossanda racconta, ma non le è piaciuto solo per questo. E' una grande lettrice da sempre e non di bocca buona.

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Euge
Recensioni: 2/5

Sono arrivato a metà e mi sono bloccato perché è troppo prolisso. È comunque un libro da leggere, perché offre una prospettiva molto interessante su circa un secolo di storia italiana. Sebbene sia pubblicato nel 2005, ci si chiede innanzitutto perché termini nel 1969. Da quel che si legge, poteva essere un'ottima professoressa di lettere e storia dell'arte, ma quanto a politica lascia un po' a desiderare. Già negli anni del Ventennio, non troviamo una persona che vive nel terrore, ma una ragazzina che vive tranquillamente la sua vita, va a scuola, all'università, senza imposizioni e si fa le letture che preferisce. Diverse pagine in cui elenca i suoi quadri preferiti, ma manca invece una riflessione sulle letture politiche preferite: si limita a citare qualche titolo. Addirittura ammette che per tanti anni conosceva a malapena il nome di Gramsci. E infatti la scelta antifascista, come è stato per tanti italiani, è più perché non voleva la guerra. Più quasi per caso, superficiale e banale: non conosceva gente tra i repubblicani e i comunisti erano semplicemente i più decisi a desiderare la pace. Ma non spiega cosa della dottrina fascista non le piace, cosa nelle istituzioni fasciste era carente. Non ha mai lavorato in vita sua, e quindi ammette di non conoscere dal vivo i problemi dei lavoratori. Era una burocrate di partito che se ne stava in sede e, quando andava a incontrare gli operai, semplicemente parlava di protesta e speranza. Di fronte ai morti dei regimi comunisti non fa una riflessione organica, non fa ammenda. Fino al 1948, sapeva a malapena che esistesse l'URSS, quando poi va a visitare Mosca, la portano a divertirsi a teatro, ma la vita la vede di nuovo da fuori.

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La recensione di IBS


«Ognuno avrebbe fatto la sua strada e quando ne leggo le ricostruzioni tutto mi pare vero e sfocato, perché per un paio d’anni si fu assieme, senza generazioni e gerarchie, ci conoscevamo tutti, tutto si stava facendo, e anche i disaccordi avevano un sale.»

Pur ammirando la lucidità e l’acutezza dei suoi interventi su «il manifesto», nei confronti di Rossana Rossanda ho da sempre (e penso di non essere la sola) provato un sentimento contraddittorio, condizionato dall’impressione che in lei ci fosse un distacco, una troppo consapevole superiorità rispetto al lettore che impediva l’empatia, l’emozione, insomma quel turbamento non solo mentale, ma “del cuore” che gli articoli di Luigi Pintor avevano sempre saputo suscitare e che, alla sua scomparsa, ha fatto sentire tutti un po’ orfani e soli.

Ebbene questa autobiografia sembra voler smentire con forza quanto per anni molti hanno pensato della sua autrice: brava, ma supponente, brava, ma lontana…

La presenza in classifica del libro ormai da settimane indica come sia stato proprio il “passaparola” ad imporlo, forma autentica di successo di un’opera, e il perché è chiaro: mai ho letto un testo che abbia saputo trasmettere con tanta energia il percorso di una persona, attraverso i grandi movimenti del secolo scorso, proponendoli con l’intensità di chi li guarda dall’interno e all’interno di essi agisce.

La prima parte vede una ragazza borghese, figlia di una famiglia intelligente, dover affrontare il primo dei tanti traslochi della sua vita, da Pola a Venezia. Cambiamenti radicali, perdita di alcuni agi, ma nessuna privazione vissuta come tale. Il rapporto con la sorella, da cui solo due anni la dividono, appare fin da subito forte e solidale, la madre è una figura solare, il padre è colui con cui condividere fin da giovanissima la passione per la lettura e una certa sintonia di carattere. Da Venezia a Milano, dall’infanzia all’adolescenza, e intanto fuori da casa il fascismo: ma lei, come probabilmente tante sue coetanee, non avvertono bene che cosa ciò significhi, anche per una certa volontà, forse neppure consapevole, della famiglia di tenere lontano il privato dalla volgarità del pubblico.

Questa inconsapevolezza sarà poi l’elemento che domina anche alcuni momenti cruciali della storia italiana che sfiorano appena la liceale Rossana. L’assenza improvvisa della compagna ebrea non suscita domande, la guerra di Spagna così come è riportata dalla stampa crea un certo orrore per quei “rossi” anticlericali e cruenti, insomma l’approdo all’università la vede piena di stimoli intellettuali, ma del tutto priva di quella che chiameremo coscienza politica. L’ammirazione per alcuni docenti, e in particolare per Banfi, il passaggio in clandestinità di Marchesi, l’improvvisa scoperta del comunismo dopo un fine settimana passato a leggere in modo forsennato testi cruciali consigliati da Banfi stesso, il mettersi a disposizione della Resistenza: passaggi straordinari che coinvolgono il lettore facendogli capire molto di più di un periodo storico e il tutto presentato con la passione, la semplicità, l’incoscienza dell’età in cui era stato vissuto.

Le pagine che raccontano, senza alcuna nota trionfale o eroica, quegli anni drammatici e non privi di contraddizioni, così come quelle che parlano del dopoguerra, dell’adesione al Partito Comunista e dell’attività dirigente al suo interno, non dimenticano mai le dinamiche familiari e private in un perfetto equilibrio (così come avviene nella vita) tra le varie componenti di una persona, gli affetti, gli interessi, gli errori e le ambiguità. Credo che proprio questa sincerità austera sia una delle note di merito del libro che, e passiamo agli anni successivi e al sempre maggior impegno nel Partito, raccontando la storia di una singola vita, permette di ripercorrere anni fondamentali della storia recente non solo italiana.

Un’altra riflessione spontanea: l’importanza nella società del Pci, il suo essere luogo di idee, d’incontro e di crescita, al di là dei ruoli specifici, “fra la fine degli anni cinquanta e nei primi sessanta ci fu un veloce cambiare delle idee e perfino delle cose attorno a noi. Era il boom, la coesistenza, la nuova frontiera, la fine dei colonialismi – il tutto accompagnato da un crescere della sinistra e della buona coscienza”.

La passione del fare politica: “Mai ci si realizza come assieme agli altri, cui con naturalezza si spiega come fare – dev’essere il temibile materno, fabbricare le creature, nutrirle, insegnargli a camminare, svezzarle malvolentieri. Mai si è meno sacrificati che in un collettivo che hai scelto e cui ti credi necessaria.”

E poi il Sessantotto: “Del maggio francese si dovrebbe parlare con serietà, quasi solennemente, perché sia chi lo apprezza sia chi lo detesta non nega che abbia costituito una cesura storica”.

L’ultima parte, quella della frattura dal Partito, non è dominata da sentimenti di rancore o di rabbia, c’è un profondo rispetto, una stima (in particolare per Ingrao e Berlinguer) che la differenza frontale di posizioni e di scelte non incrina, così come anche dall’altra parte non vi fu nessuna volontà di discredito nei confronti del gruppo de «il manifesto». Uno stile e una grandezza morale insomma che oggi profondamente si rimpiange.

Il prodotto e la causa scatenante quella radiazione sono tuttora un importante riferimento politico-culturale, luogo di dibattito e riflessione, il manifesto nasce dalla speranza e dall’aspirazione di farsi voce, luogo e crogiuolo di una nuova cultura di sinistra: “Speravamo di essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò. Ma questa è un’altra storia”.

A cura di Wuz.it

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Rossana Rossanda

1924, Pola

Rossana Rossanda, nata a Pola nel 1924, è giornalista e scrittrice. Allieva di Antonio Banfi, antifascista, ha partecipato alla Resistenza. Al termine della Seconda guerra mondiale, si iscrisse al Partito Comunista Italiano. In breve tempo, grazie anche alla sua profonda cultura, venne nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del PCI. Nel 1963 venne eletta per la prima volta alla Camera dei deputati. Nel 1969 fu radiata dal Pci perché esponente della sinistra critica. Ha fondato la rivista, e in seguito il quotidiano, «il manifesto», con cui ha collaborato fino al 2012.Tra le sue opere: Appuntamenti di fine secolo (ManifestoLibri 1995, con Pietro Ingrao), Brigate Rosse. Una storia italiana (Dalai editore 2002/Mondadori 2007, con Mario Moretti...

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