Libro sorprendente ed eccentrico, fuori dal recinto degli studi storiografici che hanno reso noto l'autore, mosso in questo caso da un'intima necessità di fare pur sempre i conti col passato ma in una dimensione del tutto personale, attraverso un romanzo di formazione in cui lascia trasparire, dietro la voce narrante in terza persona, i nomi fittizi e l'anonimato dei luoghi, il vissuto autobiografico di quello che fu il suo premier homme. E al Premier homme di Camus lo accomuna, oltre all'impianto, la storia di una infanzia e adolescenza difficili e sofferte a partire dall'improvvisa perdita del padre in tenera età, che segna una rottura irreversibile ben raccontata nelle pagine iniziali quasi come un'improvvisa caduta dall'Eden spensierato del giardino dei nonni con la brusca separazione dalla famiglia e lo spaesamento nell'ambiente sconosciuto del convitto per tutti gli anni della scuola. Di qui la precoce esperienza della solitudine, nell'impari confronto con ragazzi tutti più grandi, e l'unico rifugio della lettura per il piccolo protagonista costretto a imparare presto a contare solo sulle proprie forze. Salvadori scrive da storico qual è, senza civetterie letterarie, ricostruendo con precisione le vicende del suo alter ego, distinguendo i fatti certi dalle congetture, impegnato a registrare con lucido sguardo analitico le risonanze emotive delle esperienze vissute per i segni impressi nella costruzione del sé. Racconta la storia di un apprendistato alla vita attraverso i passaggi fondanti per la formazione del carattere come degli orientamenti etico-politici dell'età adulta, nel contesto della guerra e della resistenza viste con gli occhi del bambino o nell'impatto con il peso delle diseguaglianze sociali nei destini individuali quando perde il più caro amico, bravo a scuola come lui, ma costretto a lasciarla dopo le elementari. Con l'impronta calvinista dell'educazione religiosa ricevuta nel convitto evangelico, vive anche i turbamenti di una piccola guerra di religione in famiglia, tra il ramo protestante paterno e quello cattolico materno, entrambi pieni di fervore nel volerlo trarre dalla propria parte. Spicca come figura dominante e aggrovigliato nodo affettivo la figura della madre, descritta come un personaggio letterario alla Rossella O'Hara: spregiudicata, volitiva, egocentrica, con una amoralità talora sconcertante ma capace anche di scelte coraggiose in tempo di guerra. Il racconto si chiude con i vent'anni del protagonista che, approdato all'impegno politico comunista negli anni degli studi universitari, vive ancora una volta la fine di un'appartenenza, dell'illusione di una comunità ritrovata, dopo gli eventi traumatici del 1956 che lo portano alla rottura con il partito. Santina Mobiglia
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