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Ugo Pirro
"A chi può venire in mente oggi di farsi alfieri della verità?". È in questa domanda, posta nella prefazione del volume da Angelo Guglielmi, che possiamo riassumere il senso della lunga collaborazione fra Elio Petri e Ugo Pirro, basata su una profonda amicizia e affinità artistica. Un interrogativo cui preme sottolineare il distacco marcato rispetto a una produzione cinematografica contemporanea che, con l'eccezione di Giuseppe Ferrara e Marco Tullio Giordana, pare sempre meno intenzionata a raccontare quegli aspetti scomodi e irrisolti della nostra società e della nostra storia recente, preferendo il politicamente corretto delle commedie generazionali oppure l'impatto indiretto delle metafore d'autore. E lasciando all'irritante assenza di spigoli delle fiction televisive la funzione di parlare del passato, facendo molta attenzione a non risvegliarne i risvolti politici ancora esplicitamente attuali, non senza realizzare tuttavia delle neppure troppo mimetizzate operazioni di revisionismo rese possibili dal clima politico e culturale (anche se rari sono quelli che hanno il coraggio di affermarlo andando contro alla legge dell'audience).
Forse memori dello sprone di Zavattini, Pirro e Petri ebbero soprattutto il coraggio di mettere in scena l'ambiente sociale siciliano in cui prospera la mafia, chiamando in causa i costumi dei cittadini e i loro riti quotidiani (A ciascuno il suo, 1967, da Sciascia), di denunciare le aberrazioni del potere esercitato dagli apparati polizieschi, che diventano il naturale ricettacolo di precise frustrazioni personali e di classe (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970), ma anche di interrogarsi sulla natura dei sindacati in un'epoca in cui esercitavano un ruolo decisivo di riferimento per la classe operaia (La classe operaia va in paradiso, 1971) e di mettere in discussione con un feroce gusto del grottesco i valori del capitalismo (La proprietà non è più un furto, 1973).
Dopo la realizzazione di Celluloide, in cui raccontava la nascita di Roma città aperta, dedicando un'attenzione particolare al contesto sociale e culturale in cui il film di Rossellini venne realizzato, Pirro decide di raccontare, attraverso il suo sodalizio personale e artistico con Petri, quegli anni in cui "l'Italia era governata dalla Democrazia Cristiana, partito moderato e cauto che aveva messo al primo posto la ricostruzione del Paese dopo i disastri della guerra, posponendo a questo obiettivo (e colpevolmente trascurando) gli altri aspetti della vita del Paese come per esempio quello culturale e più in generale l'impegno a una comunicazione veritiera". Una necessità di comunicare con lo spettatore attraverso la lucida provocazione, che passava attraverso la convinzione della funzione civile del cinema, e che trovava nei personaggi interpretati da Gian Maria Volonté il grimaldello con cui scardinare le convenzioni del puro intrattenimento e mettere in crisi "lo stile reticente della classe dirigente del Paese che, per quiete e volontà di potere, aveva sottratto la realtà a ogni controllo e protetta da una sorta di inviolabilità aveva ceduto a ogni licenza fino a consentire le operazioni più sospette compresi gli intrecci tra affari e delitto".
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