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Le ciminiere non fanno più fumo. Canti e memorie degli operai torinesi. Con CD Audio - copertina
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Descrizione


Dopo l'incursione nel mondo sonoro contadino compiuta nel volume "Senti le rane che cantano. Canti e vissuti popolari della risaia", gli autori volgono lo sguardo all'universo dei canti urbani, in particolare di Torino, città che rappresenta un vero e proprio laboratorio politico e culturale, nonché un microcosmo particolarmente significativo della storia della cultura e dell'industria in Italia tra l'ultimo decennio dell'Ottocento e il primo quarto del Novecento. Il libro entra in quel mondo, analizzandone contenuti, singolarità, versanti e linguaggi, in un'ottica musicale, antropologica e sociologica. Attraverso sessanta testimoni e oltre trecento canti, gli autori documentano l'oralità di quegli anni, grazie anche a una ricchissima iconografia fatta di manoscritti, canzonieri, spartiti e partiture, opuscoli, giornali e stampe. L'intento è documentare la nascita di un canto popolare che attraversa i quartieri e i circoli proletari, un canto essenzialmente parodico, che intreccia l'ideologia anarchica e socialista e la rappresentazione degli spazi fisici e mentali operai, che è dominato dalla contaminazione e dalla mimesi dei generi più disparati dell'espressività colta e di consumo del tempo, e che trova nella creazione di una sorta di "cantata operaia" la sua manifestazione più originale e specifica. Un affresco del mondo operaio delle origini, che porta con sé un nucleo vitale di valori in cui è possibile riconoscersi e di cui ci si può ancora nutrire.
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Dettagli

2008
17 giugno 2008
XXI-728 p., ill. , Rilegato
9788860362728

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Marco
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Splendido volume. Notevole valenza musicale e scientifica. A mio giudizio potrebbe essere anche un libro di testo (storia, sociologia, antropologia culturale, musica.....)

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Voce della critica

Il titolo del libro è la traduzione del verso dialettale "I ciminé fan pa pì fum" di una canzone chiave del repertorio operaio torinese (e piemontese), la cui origine è piuttosto controversa, in quanto c'è chi la riferisce a uno sciopero dei tessili torinesi per le dieci ore nell'aprile-maggio del 1906, chi a uno sciopero dei tessili biellesi a fine Ottocento, chi alle lotte per l'orario di lavoro di otto ore alla tessitura Mazzonis di Perosa Canavese, negli anni di poco precedenti la Grande guerra. Le ciminiere non fanno più fumo perché c'è sciopero, e i padroni, dalla paura, si fanno proteggere da "coi 'd l'alum", da quelli con la lucerna, cioè dai carabinieri.
Questo libro, che ripaga la sua eccezionale mole con un'accattivante leggibilità, è naturalmente collegabile, pur costituendone ben più di una riedizione, a un precedente Canti degli operai torinesi dalla fine dell'800 agli anni del fascismo di Jona e Liberovici (Ricordi-Unicopli, 1990). Quel che di comune c'è nei due libri è il materiale raccolto sul campo dagli stessi Jona e Liberovici nel corso degli anni dal '58 al '73, costituito da diciannove "repertori", forniti da ventun testimoni: repertori ricchi di oltre trecento canzoni e frammenti di canzoni, comprese in un percorso storico che va dal "socialismo dei professori" all'"Ordine Nuovo", da De Amicis ad Antonio Gramsci. E c'è anche in comune una parte non accessoria del corredo critico, che ribadisce alcuni dei caratteri fondamentali dei repertori esaminati. In sintesi: l'abbandono sostanziale del folklore tradizionale di origine contadina, non solo nel suo linguaggio e nei suoi stilemi musicali, ma anche e soprattutto nella sua peculiare fissità e ritualità astorica, che, pur esprimendo alterità rispetto alla cultura delle classi dominanti, non ne prefigura alcuna alternativa in positivo; l'assunzione di moduli linguistici, sia letterari che musicali, di matrice urbana, dove la cultura scritta prevale o almeno si affianca alla cultura orale, e dove chi la fa da padrone è la tradizione del melodramma ottocentesco o, nelle situazioni più ludiche, la più recente moda della canzonetta da cabaret e da avanspettacolo; infine, la peculiarità contenutistica e formale del repertorio canoro dell'operaio torinese, sia rispetto ad altri strati sociali della città, sia rispetto alle realtà operaie di altre città e di altre regioni, dovuta alla specificità con cui a Torino è nata la grande industria fordista, assegnando al mondo operaio un rilevante e inedito ruolo di protagonista.
Gli elementi che di fatto caratterizzano il nuovo libro rispetto a quello precedente sono parecchi e qualitativamente importanti. Per esempio di ognuno dei testimoni dei diciannove repertori è riportata una ricca scorta di note biografiche, esaurienti dal punto di vista sia sociologico che storico e politico, estremamente utili per caratterizzare e contestualizzare il senso dei repertori stessi e dei canti che li compongono, oltre che affascinanti per i "racconti di vita" a volte incredibili che vi si trovano. L'influenza decisiva del melodramma ottocentesco sui linguaggi sia letterari che musicali dei canti operai (soprattutto di quelli a contenuto politico) è sviscerata con un'accurata opera di individuazione delle singole arie d'opera orecchiate o letteralmente ricopiate dagli autori dei singoli canti, e questo nel quadro di un'accurata descrizione della realtà dei circoli operai e delle relative corali, organizzate e dirette a volte da dilettanti, ma spesso da professionisti, maestri del Teatro Regio o del Conservatorio: a riprova del riconosciuto prestigio dell'operaio e delle sue organizzazioni, capace di attivare la collaborazione di ceti sociali non proletari.
Questo prestigio non è però una conquista della prima ora, nasce anzi da un processo sofferto, che all'inizio, quando c'è da affrontare il primo impatto con le regole e la disciplina di fabbrica, comporta una diffusa trasgressione a tali regole, che si concretizza fra l'altro nella cosiddetta "lunediana", cioè nella frequente abitudine di disertare le fabbriche il lunedì, per smaltire le conseguenze degli stravizi domenicali in osteria: sregolatezza, questa, nata dall'esigenza di "ritemprare in modo violento e rapido il fisico indebolito e scombussolato da una settimana di lavoro (…) verso le botteghe e le bettole, dove (…) si sta fino alla tarda sera della domenica, bevendo vini e liquori, che debilitano l'organismo invece di rinvigorirlo". Solo con la nascita e il rafforzarsi del movimento socialista come movimento di riscatto sociale, questi fenomeni di intemperanza sono sottoposti a processi di "rieducazione" (soprattutto da parte della corrente riformista), caratterizzati da campagne contro l'alcoolismo, dalla smitizzazione della bettola come luogo di aggregazione popolare, fino a giungere alla esaltazione dell'operaio "provetto", fiero delle proprie capacità professionali e delle proprie competenze tecniche.
Di questo processo, che è una vera e propria rivoluzione culturale, c'è testimonianza ricca ed esauriente nei canti raccolti, che vanno da veri e propri inni al rifiuto del lavoro, inseriti a volte in "chansons à boire", a canti di esaltazione del lavoro di fabbrica ("Fé largo citadin / a custi uperai / ch'a sun i primi 'd Turin / ant ël travaj").
Questo libro, rispetto al precedente del 1990, affronta e approfondisce la questione dell'uso del dialetto invece della lingua, non solo nei canti, ma anche nelle altre diverse manifestazioni orali e scritte del periodo preso in esame. A fronte di un'opinione corrente per cui il dialetto sarebbe riservato all'oralità popolare di matrice prevalentemente contadina, mentre la scrittura, in lingua, apparterrebbe soprattutto alla realtà urbana, gli autori evidenziano il fenomeno, rilevante a Torino, della scrittura dialettale, cioè dell'uso letterario del dialetto, che si manifesta ormai da lungo tempo non solo nelle canzoni (si pensi al canzoniere di Angelo Brofferio, organicamente inserito nel repertorio operaio), ma anche nei giornali, nel teatro, nella poesia "colta". Per questo suo carattere non "di nicchia", il dialetto ci guadagna quindi in termini di ricchezza espressiva, di sottigliezza linguistica, di ampiezza nell'articolazione semantica, risultando in generale più genuino e più comunicativo dell'italiano, spesso usato nei canti politici in modo retorico, ampolloso e ridondante.
Altro elemento di novità del libro è l'excursus ampio e articolato nel territorio dei canti e delle memorie operaie nell'alessandrino, dove l'uso del dialetto ha una notevole rilevanza; excursus che offre alcuni succosi campioni di un materiale che si presenta enormemente ricco e esteso, in misura tale che possiamo prefigurare, o auspicare, un'iniziativa editoriale riservata a questo specifico campo di ricerca e di indagine.
Non si può, infine, tacere il singolare interesse di alcune prese di posizione di Antonio Gramsci e di "Ordine Nuovo" in merito al materiale, loro contemporaneo, oggetto di questo libro, che gli autori hanno giustamente riportato. Sintomatico in questo senso il giudizio di Gramsci sul verso "Bandiera rossa trionferà", da lui considerato privo di programma pratico, espressione di un massimalismo inerte, da far risalire a "una concezione fatalistica e meccanica della dottrine di Marx".
Fausto Amodei

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