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Charles Laughton. La morte corre sul fiume
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1998
1 gennaio 1998
152 p., ill.
9788871802350

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Luca t.
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Perché un film come “La morte corre sul fiume” (“The night of the Hunter”, 1955), letteralmente adorato da manipoli di agguerriti cinefili, è pressoché ignorato dalle storie del cinema? Forse perché è l’unico diretto da Charles Laughton, orgogliosamente deluso dall’accoglienza riservata alla sua opera prima. Forse perché lo stesso Laughton parla del film con impagabile spocchia – quella che gli riconosciamo quando indossa le ampie vesti dell’avvocato Robarts (“Testimone d’accusa”, B.Wilder, 1957) – deprecando un cinema che permetta agli spettatori di non “stare con gli occhi fissi sullo schermo”, o addirittura di tenere “la testa piegata all’indietro per poter meglio ingoiare popcorn e dolcetti” e ripromettendosi, con il suo film, di far riacquistare agli spettatori “la posizione verticale”. Il bel libro di Fornara fornisce, indirettamente, molte spiegazioni della strana sorte del film, dicendone la bellezza assoluta della costruzione ma, appunto, anche la complessità di lettura. Laughton, infatti, crea un’opera al tempo stesso esteticamente riuscita e così ricca di significati e suggestioni che davvero il cinema (che pure all’epoca quanto a mirabili artigiani non scherzava) ne prende le distanze. Come a volte ci allontana una persona tanto bella ma il cui senso – il cui mistero - non possiamo cogliere compiutamente. Richiamo alcune delle tematiche più approfonditamente trattate da Fornara: l’uso della luce, e la lotta tra luce e buio, nella sua perfetta coerenza con le situazioni narrative; la struttura di “racconto raccontato”, che se non avvertita può davvero disorientare lo spettatore, subito dichiarata ma complessa nella sua implacabile applicazione (noi, ad es., vediamo i bambini protagonisti del film fare delle espressioni eccessivamente caricate, ma appunto stiamo seguendo il racconto di chi ha ascoltato la storia dai bambini stessi, e ne riproduce la

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scheda di Marangi, M. L'Indice del 1999, n. 02

Strano destino quello di The Night of the Hunter (1955) - unico film diretto da quel Charles Laughton che spesso è ricordato come attore cinematografico e teatrale di grande rilievo, ma non come regista -, tratto dal romanzo omonimo scritto nel 1953 da Davis Grubb (pubblicato in Italia come Il terrore corre sul fiume, Anabasi, 1993).Rimosso dalle storie del cinema, per molti cinefili è il tipico film di culto, che ha segnato profondamente la propria memoria e che sa scatenare a ogni nuovo incontro emozioni incantate e oscure inquietudini. Fornara appare consapevole che il fascino maggiore del film risiede nella sua natura plurima e per certi versi sfuggente, e sceglie una lettura critica capace di coniugare il rigore analitico e interpretativo con lo stupore e l'ammirazione che ogni spettatore prova di fronte ai film che davvero lasciano il segno. Utilizzando la complessità come paradigma di lettura privilegiato, Fornara riprende e supera alcuni schemi interpretativi che nel passato hanno eccessivamente "spiegato" il film di Laughton, soprattutto in ambito psicoanalitico e semiologico. Viceversa, stimola l'apertura di altri sentieri interpretativi e propone nuove prospettive di sguardo: la complessa struttura dei differenti livelli di narrazione che attestano ora lo scarto ora la complementarietà tra mondo adulto e infantile, tra mito e realtà; l'isotopia del combattimento tra ombra e luce che travalica la sfera puramente estetica per fornire il senso più profondo a molte sequenze in cui si svela la caducità delle apparenze; il gioco dei richiami e dei rimandi tra sequenze o inquadrature simili dislocate lungo la narrazione; l'omaggio al cinema di Griffith, che permette di superare le convenzioni del film di genere e recupera lo stupore e la passione del cinema del primo cineasta classico; la continua contaminazione di generi narrativi e la quantità di riferimenti letterari, iconici e culturali che spiazzano lo spettatore e lo invitano a uscire da anguste gabbie interpretative. In questo senso il grande pregio del libro di Fornara è quello di tradurre criticamente la passione dello spettatore, stimolando il lettore a vedere, o a rivedere per l'ennesima volta, quello che Serge Daney ha definito "il più bel film americano del mondo".

(M.M.)

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